Dopo aver studiato cinese all'università di Venezia, Degiorgis si è trasferito a Hong Kong e poi a Pechino dove ha continuato i suoi studi e ha iniziato a fotografare. Dopo un periodo di stage alla Magnum Photos di Parigi, ha vinto una borsa di studio per studiare da Fabrica, a Treviso. Nel 2014 fonda con Eleonora Matteazzi la casa editrice Rorhof, con cui ha pubblicato Hidden Islam.
[NdR] Per questa intervista (fatta via Skype tra Bolzano e New York, ve ne accorgerete dalle risposte lunghe e articolate) abbiamo deciso di cambiare il format che in genere usiamo: non troverete quindi la gallery di immagini che di solito accompagna le nostre domande. Abbiamo pensato che un lavoro come "Hidden Islam" fosse valorizzato meglio mostrando la pubblicazione, che - come ci racconta Degiorgis di seguito - è un tutt'uno con il concept del progetto.
Partiamo subito da Hidden Islam, che ha ricevuto tantissimi premi in giro per il mondo. Vuoi raccontarci come è nato il progetto, quanto è durata la sua realizzazione - dalla prima foto alla prima copia stampata - e che esperienza è stata realizzare questo lavoro?
Il progetto è nato nel 2009, ci ho lavorato per 5 anni in maniera abbastanza continuativa. Diciamo che nei primi due anni è stato molto intenso e poi negli anni successivi soltanto nei mesi di Ramadan fino all’ultimo anno, il 2013, in cui l’ho ripreso in mano e l’ho completato e anche quella è stata una fase molto intensa. É stata una esperienza molto bella e intensa, molto forte ed è durata così tanto che è un po’ difficile riuscire a trarne un sunto breve: diciamo che è stata molto educativa sotto molti punti di vista, in particolare a livello fotografico.
Quando ho iniziato a fare il progetto, avevo già lavorato ad un altro libro che riguardava l’autostrada in Cina e che aveva un approccio fotografico molto diverso, più spontaneo, più di racconto e reportage, ed ero tornato da quel viaggio un po’ frustrato perché non riuscivo a editare il lavoro: avevo intenzione di raccontare la storia di questa autostrada però non riuscivo a condensarlo in un editing classico di 12, 18, 24 foto perché la storia non si prestava per quel format li. Volevo quindi fare un libro, ma ci sono voluti 5 anni – non continuativi, ma con periodi abbastanza intensi ogni paio di mesi - per riuscire a capire come strutturare la storia e sviluppare questa sfumatura cromatica dal giorno alla notte. Tornato dalla Cina, mi son detto che avrei voluto cominciare un progetto a lungo termine in Italia. In Cina, infatti, nonostante avessi studiato cinese, ero comunque inevitabilmente un estraneo.
Così sono partito dal presupposto che volevo instaurare una relazione diversa con i soggetti che fotografavo e ho iniziato a dedicarmi all’immigrazione, in particolare a quella islamica nel Nord est. All’epoca abitavo a Treviso, ero in un contesto particolare come quello di Fabrica, un laboratorio con gente che viene da ogni parte del mondo, per cui c’era un confronto costante con loro. Mi è stato suggerito di continuare a lavorare sull’islamismo in Italia e così ho approcciato la prima comunità e pian piano il progetto è cresciuto in modo organico.
Come è stato l’approccio e il rapporto alle persone che andavi a fotografare? Vuoi raccontarci qualcosa?
Io ero abbastanza onesto, tranquillo e diretto. Solitamente approcciavo il responsabile della comunità, gli spiegavo che stavo facendo un libro sull’Islam in Italia e che volevo raccontare la comunità islamica e tutti gli aspetti dell’Islam alla gente che non ne era a conoscenza, e solitamente mi accettavano senza problemi. E’ stato un processo abbastanza lungo, quindi all’inizio ci sono voluti un po’ di giorni o settimane per conoscere la comunità, dipendendo anche dal momento: infatti durante i mesi di Ramadan la comunità si riunisce tutti i giorni mentre negli altri periodi soltanto il venerdì. In più i luoghi erano anche abbastanza distanti fra loro, per cui ci voleva un po’ di tempo anche per questioni logistiche. Una volta spiegato il progetto ed essere stato introdotto nella comunità, passavo tanto tempo nei centri islamici e non soltanto per il momento di preghiera: passavo le giornate intere e così entravo in contatto con la comunità e pian piano riuscivo a documentarla. L’approccio è stato quindi abbastanza naturale, mi hanno accolto. Ci sono state comunità dove preferivano che non facessi foto, ma anche se non facevo foto non significa che non mi accogliessero sotto altri punti di vista. In generale posso dire che le reazioni e le relazioni sono state positive. Ovviamente poi, come ogni fotografo sa, in qualsiasi contesto ci sono delle persone che non vogliono essere fotografate, a maggior ragione in un momento così intimo come è quello della preghiera.
Se dovessi pensare alla stessa situazione in un’altra comunità religiosa non musulmana, probabilmente sarebbe ancora più difficile accedere: in passato ho provato a documentare la comunità protestante cinese e quella coreana ed erano molto più chiuse. Da parte di quelle islamiche che ho documentato c’era invece molta voglia di raccontare e di raccontarmi e di insegnarmi tanti aspetti della loro cultura che poi è anche molto variegata, per cui è anche difficile mettere a tutti lo stesso “cappello”, poiché sono nazionalità e comunità molto eterogenee, provenienti da una miriade di paesi diversi, per cui anche le culture sono diverse. Questo è un altro aspetto del progetto: ogni comunità aveva delle particolarità indipendentemente da qualche fosse la nazionalità dominante.
Che immagine del nord est dell’Italia credi venga fuori nel libro?
Io mi sono concentrato sul nord est perché provengo dal nord est e perché ci abito. L’idea iniziale era di raccontare il territorio in cui mi trovavo (il Veneto) e di confrontarmi con certi aspetti dell’area trevigiana e del resto del Veneto con i quali non mi identificavo e con cui non ero d’accordo. Al di la di questo, c’è da dire che anche nel nord est ci sono situazioni molto diverse, non si può trarre un’immagine unica del nord est perché io ho documentato un aspetto dell’immigrazione musulmana che ha delle specificità rispetto al territorio del nord est e rispetto all’Italia, ma ha anche molti punti in comune con altri paesi europei e del resto del mondo. Quali sono le specificità del nord est? A me interessava molto fare una fotografia urbanistica, ovvero tutta la mappatura dei luoghi che a suo modo racconta molto il territorio, nonostante venga utilizzato per raccontare qualcos’altro, cioè cosa avviene al loro interno.
Quindi da un lato racconta una relazione che la comunità islamica ha con il territorio, dall’altro è la fotografia del nord est, partendo principalmente dai capannoni e da un certo tipo di architettura. Il nord est e il Veneto dipendono molto dall’immigrazione, quindi anche questo è un aspetto che mi ha portato a sviluppare il progetto, con queste due anime: le zone periferiche e le fabbriche vengono al tempo stesso utilizzate per creare ricchezza, produzione, gli immigrati vengono per cercare lavoro e il territorio ha bisogno di forza lavoro, quindi loro vengono assunti e messi al lavoro. Nello stesso luogo o nella stessa tipologia di struttura dove loro creano ricchezza, possono anche professare la loro religione, a volte in modo nascosto e a volte un po' meno.
Per quanto riguarda il fatto di essere nascosti… non è ben chiaro se sia la comunità che in parte si nasconde o se sia la società che - in parte - glielo impone. Ci sono anche degli aspetti diciamo “pratici”: una comunità musulmana o in generale una comunità che non è in Italia da troppi anni, da un lato non ha le risorse economiche per acquistare gli spazi in pieno centro (hanno necessità di spazi molto grandi e quindi i capannoni hanno prezzi inferiori e danno la possibilità di pregare in molti di più) e dall’altro le municipalità e le città si devono chiedere dove vogliano che questi luoghi crescano. Io trovo abbastanza paradossale doverli mettere tutti nelle periferie delle città, perché è controproducente sia riguardo all’integrazione della comunità sia per aspetti di sicurezza.
Il Nord est direi quindi che ne emerge come in una situazione abbastanza critica, anche perché in Italia questa tematica non viene affrontata in modo strutturato. A Treviso per esempio, la comunità islamica ha una relazione con la municipalità, ma quando cambia il sindaco cambia anche la relazione: non è possibile che una comunità religiosa (nello specifico la seconda per numero in Italia) debba in continuazione sottostare a regole che cambiano, posti che deve cambiare anche solo per questioni di vicinato. Ci dovrebbero essere delle linea guida per i sindaci, per chi abita e per le comunità stesse, perché senza si creano tensioni e non certo integrazione.
Di Hidden Islam, da pochissimo vincitore del premio come miglior libro dell’anno 2014, è stato detto “Dopo averlo visto, non potrai smettere di pensare a quello che potrebbe esserci nascosto nella tua città”. Come hai scoperto cosa c’era di nascosto nella zona in cui hai sviluppato il progetto e che reazione ha suscitato in te?
In generale, alcuni luoghi sono più conosciuti, per esempio quando si tratta di negozi in zone più centrali, e altri luoghi sono meno conosciuti, per esempio nel caso dei capannoni in zone industriali. È difficile che siano totalmente nascosti perché almeno il vicinato solitamente lo scopre. Anche io sapevo in quale zona c’era un centro islamico, poi andavo a chiedere e anche il vicinato lo sapeva perché il venerdì arrivano le macchine e quindi si sa dove si trovano: non è una cosa che avviene in modo nascosto, la sera o di notte.
Per andare da una comunità all’altra all’inizio del progetto mi sono basato molto sui quotidiani locali del nord est: abbiamo una miriade di quotidiani locali e su ognuno c’erano discussioni riguardanti le moschee, non solo ultimamente dopo Parigi, ma dagli attentati dell’11 settembre, c’è tutta una discussione basata sul pregiudizio o islamofobia, e quindi il progetto partiva da quel presupposto. In particolare dove vivo io a Treviso c’era molta tensione fra la comunità islamica e la comunità locale per cui tanti giornali parlavano della possibilità che sorgesse un centro islamico. Io andavo, perlustravo le aree e poi scoprivo i centri islamici. Poi pian piano mi ha aiutato anche il passaparola. Poi anche grazie a strumenti tecnologici tipo google maps o google street view, la comunità ha cominciato a mettere i luoghi di preghiera su internet in modo da essere trovata dai propri fedeli. Anche la comunità stessa deve ancora strutturarsi quindi ci sono tanti siti e pian piano mettendo insieme tutti questi pezzi sono riuscito a completare una mappatura, non completa, dei luoghi. La mappatura non è completa ma possiamo dire più consistente di quanto ci aspettiamo. Andando a cercare questi luoghi ne ho trovati tantissimi di cui non ero a conoscenza: quindi ho anche scoperto la presenza di fabbriche illegali della comunità cinese, oppure altre comunità religiose come quelle protestanti africane. Possiamo dire che il panorama è abbastanza variegato, è la comunità islamica avendo un grande numero di fedeli che si riuniscono il venerdì è anche molto visibile rispetto ad altre.
In un momento così difficile per l’editoria “tradizionale”, come e quando nasce l’idea della vostra (Nicolò ne è fondatore insieme ad Eleonora Matteazzi) casa editrice Rorhof?
Prima di fondare la casa editrice e di pubblicare i libri mi ero confrontato con alcuni editori, avevo anche degli amici che avevano sviluppato progetti editoriali autoprodotti e avevo anche ricevuto un feedback da parte loro rispetto al self publishing, che avrei cominciato immediatamente, ma c’era sempre il problema di tutta una parte di lavoro consistente che non riesco a fare da solo perché mi occupo anche di altre cose, quindi è nato tutto quando la mia collega Eleonora Matteazzi – con la quale abbiamo fondato la casa editrice – ha deciso di imbarcarsi anche lei nel progetto. In questo momento ci vuole molta più dinamicità nel settore, e tante strutture classiche come la case editrici non ti permettono questo.
Siamo una realtà molto piccola, ad oggi siamo tre, ed è tutto in divenire. Una volta che si inizia ad imbarcarsi in troppi progetti si rientra nel circolo vizioso dell’editoria e già noi ora abbiamo difficoltà – nonostante abbiamo avuto un discreto successo – e non voglio soccombere in progetti megalomani. L’idea è quella di tornare ad un’autoproduzione e a una visione artistica molto particolare della casa editrice e dei progetti fotografici in se, come prodotti editoriali con una linea e una collana di libri. L’idea è proprio quella di fare una collana di libri.
Come avviene oggi la distribuzione dei vostri libri?
È avvenuto tutto molto velocemente, abbiamo distribuito molto durante le fiere, alle fiere molti bookshop hanno visto i libri e ci hanno contattato e siamo riusciti a sviluppare anche una mini rete di librerie e adesso sto cercando di capire se e fino a che punto andare con un distributore. Probabilmente, per praticità ed essendo rimasto senza Eleonora (che si è trasferita a Parigi ed è dovuta uscire un po’ dalla casa editrice, ndr.), mi appoggerò ad un distributore per i paesi fuori dall’Europa, mentre manterrò io la gestione del bookshop online e delle fiere.
L’impaginazione e l’oggetto editoriale creano essi stessi significato: attraverso le pagine di Hidden Islam che si aprono, il lettore “scopre” quasi fisicamente i segreti dei posti che hai individuato. Anche gli altri libri della vostra casa editrice presentano delle particolarità. Da dove nasce questa grande attenzione per l’oggetto libro?
Diciamo che sono progetti che nascono già concepiti come libri quindi ho bisogno che il libro fotografico abbia una parte concettuale molto forte: per come venga preso in mano, come venga letto, come vengano voltate le pagine, cioè tutta una serie di aspetti che rendono il libro ancora un oggetto necessario da stampare, non ancora rimpiazzabile dall’Ipad o altri strumenti per leggere.
Nello specifico, per Hidden Islam, la parte estetica e grafica del libro e della mappatura c’era già in mente dall’inizio già dopo il primo anno. Per quanto riguarda la parte fotografica, ho creato vari menabò durante gli anni e ognuno andava un po’ in una direzione. Quando sono arrivato all’idea finale delle pagine che si aprono, lì è scattato tutto il progetto degli esterni.
C’era quindi una visione estetica di come il libro doveva essere, quindi non un libro fotografico tradizionale in stile portfolio. Posso dire che è nato in modo organico, un po’ fotografi e un po’ lo disegni e man mano capisci cosa va rifotografato e cosa va ridisegnato.
Non sempre le foto degli esterni corrispondono alle foto degli interni. Le foto degli interni sono nate come l’idea di un progetto di racconto all’interno della comunità, le foto degli esterni invece proprio come una mappatura molto rigorosa, con una visione molto rigorosa di tutta la tematica. La mancanza di corrispondenza è anche data dal fatto che non ho avuto accesso a tutti i luoghi, in alcuni casi non ci ho nemmeno provato: ho seguito alcune comunità in modo molto intensivo per vari anni e poi alla fine ho riscattato tutti gli esterni seguendo la mappatura che ero riuscito a creare.
L’idea stessa del libro, e credo una delle sue forze, è quella di mettere in giustapposizione due linguaggi fotografici diversi. I libri io li penso in modo molto logico, devono avere una logicità molto forte: uno degli scopi era dare il libro in mano ad una persona senza farle capire che c’è un altro libro all’interno del libro. Per cui l’impaginazione e il fatto di usare linguaggi diversi ha aiutato a stimolare l’interesse ad aprire le pagine creando anche - credo - un forte impatto. E poi ci sono due percorsi concettuali: uno è la documentazione dell’esterno e dall’esterno della comunità con una certa impostazione fotografica rigorosa, l’altro – interno alla comunità - invece ha molta più complessità, colori e un approccio anche spirituale molto diverso. L’idea era mettere in dialogo o in contrapposizione queste due realtà perché tutto il progetto riguarda proprio questo.
L’ultima pubblicazione della Rorhof è Hidden Islam - 479 Comments, una versione del libro che include la discussione che ha scatenato un articolo del Guardian che presentava il progetto. Un caso questo in cui un lavoro fotografico riesce ad influenzare il dibattito sociale, fornendo spunti a sociologi, antropologi e giornalisti. Immaginavi una reazione del genere? Pensi che la fotografia possa portare cambiamenti sociali, o che ruolo può avere nel dibattito pubblico?
Non immaginavo sinceramente che funzionasse così bene nel mondo fotografico. Durante gli anni non è che il progetto non venisse colto o non avesse ricevuto alcuni riconoscimenti, però percepivo che non veniva colto allo stesso modo di come poi è riuscito a fare il libro. E credo che questo fosse dovuto al fatto che nasceva già come libro e quindi come libro ha una sua ragion d’essere mentre come reportage non raggiunge lo stesso livello di forza e la stessa profondità di ricerca. La fotografia è un linguaggio e dipende cosa se ne fa di questo linguaggio: è difficile dire se la fotografia riesca o no a stimolare dei cambiamenti sociali… se uno dice una cosa, dipende da cosa dice e da come uno la utilizza. La fotografia si sta sviluppando in tantissimi settori diversi e con caratteristiche diverse e quindi è un po’ come dire “la musica può cambiare la società? Boh!.. si e no”… ha una sua realtà pubblica che può influenzare tutto o niente. Io l’ho utilizzata per documentare e per creare un libro che a sua volta ha un suo percorso autonomo all’interno della società. Secondo me è un linguaggio molto forte che riesce a comunicare cose che altri linguaggi non riescono, come una ricerca puramente scientifica forse non riesce a fare. Hidden Islam l’ho basato su ricerche di altri sociologi ma queste non hanno avuto lo stesso riscontro di Hidden Islam. C’è una forza comunicativa della fotografia al giorno d’oggi che è molto più forte di quanto lo fosse prima: c’è molta più gente che produce fotografie e immagini e che è alfabetizzata e sa leggere la fotografia.
Sul territorio ci sono state reazioni?
Credo di sì. È molto difficile, dopo solo sette mesi – che è un tempo relativamente breve per un libro fotografico – dirlo. Sono arrivate molte interviste e ne continuano ad arrivare e ultimamente anche da testate e tv da cui non me lo sarei aspettato. È interessante, anche se al momento lo stiamo ristampando e quindi non è fruibile come prodotto, vedere che ha avuto tramite internet una distribuzione che va al di là del libro materiale e anche in angoli della società dove non mi aspettavo che arrivasse.
Nella stampa locale le reazioni sono state tendenzialmente positive e si sta sviluppando ora più specificatamente sul territorio. L’idea è che diventi uno strumento di discussione sul tema e in un modo o nell’altro lo sta diventando. Spero che porti la discussione su un piano diverso, più “calmo” e sociologico. Anche più umano direi, visto che stiamo parlando di immigrazione che è una questione comunque generale, non soltanto legata al mondo islamico.
Bisogna aprire un discorso più ampio sull’immigrazione in Italia, in Europa, sul come ci rapportiamo rispetto alla nostra Costituzione alla quale crediamo e quindi dobbiamo porci alcune domande, perché i tempi stanno cambiando: o stiamo al passo coi tempi o dobbiamo rivalutare l’idea di una democrazia come l’avevamo capita fino ad ora.
Martin Parr ha scritto l’introduzione del tuo libro: come è avvenuto il vostro incontro?
Avevo fatto uno stage di sei mesi alla Magnum e l’avevo conosciuto durante uno shooting, nel 2007. Già all’epoca gli avevo fatto vedere il portfolio dei miei primi progetti in Cina e si è instaurata un po’ una relazione tra mentore e studente e lui così negli anni ha seguito il progetto. Se non fosse stato per lui questo progetto non ci sarebbe, perché non ci credeva tanta gente e lui è stato l’unico a crederci. Per quanto il progetto possa essere interessante, lui ha avuto molta pazienza perché molti altri ad un certo non lo hanno più seguito, mentre lui ha insistito che voleva vedere il libro, che dovevo continuare. Un po’ perché era lui, un po’ per il fatto di sapere che teneva al progetto che ho avuto la forza di continuare e finirlo. È andata bene ed è stato naturale chiedere a lui l’introduzione.
Anche il lavoro La laguna di Venezia è un oggetto particolare, i bordi seghettati delle fotografie ricordano le cartoline postali da un luogo di provincia. Era questa l’intenzione? Che messaggio volevate dare oltre a ciò che si legge sul sito?
Si era questa l’intenzione: l’idea era di restituire “magia” e una certa estetica alle cartoline, che ormai sono tutte patinate, e ad una città utilizzando una fotografia puramente documentaria. Volevamo restituire un’immagine contemporanea di Venezia e la forma del bordo richiama i bordi vecchi di una volta, sia delle cartoline sia dei francobolli. Facciamo dei fogli stampa da cui strappiamo le cartoline una ad una, quindi gran parte della pubblicazione viene fatta da noi in casa a mano.
Era un’idea per semplificare la cartolina ma darle al tempo stesso degli aspetti un po’ particolari che altrimenti non avrebbe.
Come vedi il settore del self-publishing oggi? E come pensi che si possa evolvere?
Il self publishing sta andando molto bene e quello che ho notato io nelle fiere dell’ultimo anno è che c’è difficoltà per le case editrici tradizionali nel riuscire a stare dietro ai progetti. Vendono anche loro ma molto del self publishing sta cambiando il modo nel quale si sviluppa un prodotto editoriale, nel modo in cui si crea un libro e ha delle ripercussioni anche rispetto a come viene fotografato, quindi anche rispetto alla fotografia stessa. C’è un rapporto diverso con la fotografia, e non è più come una volta, c’è molto più “gioco”, c’è un rapporto più ludico rispetto agli aspetti tecnici della fotografia e della pubblicazione stessa. Credo che il self publishing stia giovando in primo luogo al racconto visuale e al racconto fotografico in particolare, proprio alla struttura narrativa di un libro e di quello che si può creare con la fotografia e ancora con un oggetto fisico.
Si sta creando proprio un linguaggio ed è un periodo molto stimolante.
Quale sarà la vostra prossima pubblicazione, puoi anticiparci qualcosa?
Abbiamo fatto una nuova pubblicazione a dicembre, che è un libro sulla fotografia documentaria, un catalogo-libro, ed è il primo capitolo. Ha un’impostazione molto forte come oggetto, in linea con la nostra idea editoriale, ed è come un estratto del libro: è in una custodia trasparente e manca proprio l’introduzione e i capitoli successivi. Essendo il primo si chiama Chapter 1 – The Hierarchy of Images ed è un catalogo con tre testi che presentano tre autori diversi che lavorano nel mondo dell’arte e utilizzano la fotografia con approcci diversi: uno è Mishka Henner che viene introdotto da Marco Bohr, Joachim Schmid che viene introdotto da Garry Badger e Tobias Zilony che viene introdotto da Seraphine Meya.
Al momento sto lavorando ad un altro libro che verrà presentato, se tutto va bene, a metà aprile e anche questo è di un’altra persona e mantiene sempre una visione artistica del prodotto. In entrambi casi sono libri o cataloghi che nascono in collaborazione con la galleria Foto-forum di Bolzano in cui faccio parte del direttivo e sono libri che concepisco io sia a livello curatoriale sia a livello di idea. Insomma, bisogna aspettare di vedere il prossimo libro! Comunque sono sempre io che scelgo gli autori e scelgo come fare il libro.
Sappiamo che hai frequentato il corso di fotografia di Fabrica… ma prima come nasce la tua storia fotografica?
Nasce prima di Fabrica, la fotografia mi piaceva già al liceo: ero però indeciso su cosa studiare dopo e tutte le cose tra cui ero indeciso gravitavano intorno dal mondo dell’arte fino alle scienze politiche. Ho poi studiato lingue e lavorando in Cina mi sono appassionato ancora di più di fotografia e ho cominciato a lavorare di la come fotogiornalista. Poi sono andata a Fabrica e prima di Fabrica ero alla Magnum: ho amato e amo ancora la Magnum, è stato il luogo dove ho imparato di più rispetto ai fotografi all’inizio. E poi da li ho proseguito il percorso un po’ a zig zag ma in modo organico.
A quali fotografi ti ispiri per il tuo lavoro?
A molti, ma tecnicamente mi approprio abbastanza di stili, dipende un po’ dal progetto… lavoro molto a livello concettuale quindi se per un corpo di lavoro credo che uno stile funzioni meglio o ho un’idea precisa di come deve essere, lo sviluppo e cerco di appropriarmene. Nei primi anni ho imparato moltissimo dai fotografi di Magnum, prima solo guardandoli, poi standoci dentro e quella è stata l’esperienza più forte a livello tecnico. Vedevo moltissime foto e vedevo i fotografi lavorare e ho imparato tutti i retroscena, organizzazione, logistica, etc. che sono essenziali per sviluppare progetti di lungo periodo. E poi Martin Parr, tantissimo ovviamente. Ci sono anche tanti artisti che lavorano con la fotografia: sono una persona che ha interessi molto vari, non solo rispetto al mondo della fotografia.
Come dividi il tuo tempo, dopo questi riconoscimenti importanti, fra il tuo lavoro di fotografo e la casa editrice?
In verità non sto fotografando tanto al momento, insegno fotografia e questa è una parte che mi ha preso tanto tempo prima e me ne prenderà ancora di più perché adesso inizio un nuovo corso. Fino ad ora ho insegnato all’interno di un carcere, faccio un workshop che va avanti da due anni e mezzo. Ora inizierò un nuovo corso all’università di Bolzano, alla facoltà di arti e design. E questo prende tempo. La casa editrice ne assorbe tantissimo, anche tutta la parte organizzativa, l’impaginazione dei libri…vorrei avere più tempo per la fotografia che al momento non ho, ma tutto sommato ora va bene così: è giusto prendere un po’ di distanza, sto lavorando col materiale fotografico di altre persone e mi piace molto anche questo. I miei progetti sono comunque progetti a lungo termine, quindi ci sono fasi di immersione e poi fasi di disintossicazione dove si capisce, si elabora, si capisce come fare l’editing, è molto altalenante il processo ed è giusto che sia così.
Sto lavorando su vari fronti personali: sto facendo un libro sul luogo dal quale provengo, sul concetto di “heimat” – concetto tedesco intraducibile in altre lingue – che significa “luogo dal quale vieni”, cioè casa tua ma non fisicamente come abitazione… può essere esteso sia alla tua città sia alla tua famiglia. È un lavoro basato molto sull’immaginario di come vedo io il mio territorio e come lo vedevo da piccolo. Poi c’è un altro progetto che ho scattato ma di cui il libro non è ancora terminato perché sto raccogliendo materiali che riguardano l’esercito italiano, rispetto al concetto di conflitto e di crisi. Si tratta sempre di fotografia documentaria e fa sempre parte di questa mappatura del nord est di cui Hidden Islam potrebbe essere considerato un capitolo di una discussione molto più ampia, che va a perlustrare il luogo dove vivo e che conosco meglio. I lavori partono da una mappa e vanno a raccontarne vari aspetti, più personali o più documentari, però l’idea è quella di un progetto a lungo termine più ampio.
Siete molto concentrati sul libro fotografico come oggetto dalle caratteristiche peculiari: avete mai pensato di affiancare ai libri dei prodotti multimediali, intesi sia come supporto al libro sia come lavori autonomi?
Si, io ho alcune idee per fare libri digitali, però ho anche tante idee per libri che non sono digitali, quindi devo capire un po’ la direzione da prendere e un po’ si fa quello che arriva: non posso pensare di avere un piano di battaglia da seguire. Cerco di captare come sta andando la questione e se ci sono degli input particolari decido se sviluppare un versante piuttosto che un altro. Ho un’idea per un libro ma anche il supporto digitale deve avere un suo perché molto forte. Anche il libro che voglio fare per supporti digitali ha un suo supporto concettuale. L’idea di Rorhof è fare pubblicazioni che abbiano ognuna una sua specificità e quindi una riflessione sull’editoria stessa, per cui non ho nessun interesse nel fare un libro simile all’altro.
A chi passi il testimone, e perché?
Lo passo a Max Pinckers, fotografo documentario belga, molto giovane, ma molto interessante.
Intervista a cura di Marco Benna
ENGLISH VERSION
After studying Chinese at the University of Venice, Nicolò Degiorgis moved to Hong Kong and then to Beijing to continue his studies - and here he started taking photos. Upon completing an internship at Magnum Photos in Paris, he won a scholarship to study at Fabrica, Treviso. In 2014 he co-founded the publishing company Rorhof with Eleonora Matteazzi. He published Hidden Islam through Rorhof.
[Note to the reader] We conducted this interview via Skype between Bolzano and New York City - hence the long and articulated answers. That’s why we decided to change our format. You won’t find the image gallery that usually accompanies our questions. We thought that a work such as Hidden Islam would be better appraised by showing the publication itself - which, as Degiorgis tells us below, makes a whole with the concept of the project.
Let’s start with Hidden Islam, which has received a number of awards all over the world. Could you tell us how this project originated, how long it took to release it - from the first picture to the first printed copy - and what did it feel like to work on this project?
The project was conceived in 2009. I worked on it for a good five years continuously. The first two years were quite intense, whereas through the following years it was mainly during the Ramadan months - until 2013, when I went back to it and finished it, and that proved to be another intense phase, too. It’s been a beautiful and powerful experience, definitely strong and long-lasting - so much so that it’s hard to produce a quick recap. It’s been very edifying for so many reasons, especially in terms of photography.
When I commenced the project, I had already worked on another book on the Chinese highway, which featured a much different photographic approach - more spontaneous and in the form of a reportage / narration. I set to tell the story of this highway, but I was unable to consider it as a classic editing of 12, 18 or 24 photos because the story didn’t fit that format. Hence I wanted to release a book, but it took me five non-consecutive years (with intensive periods every other couple of months) to understand how to structure the story and develop this chromatic shade from daytime to nighttime. As I returned from China, I told myself I wanted to start a long-term project in Italy. Although I had studied Chinese, I was unavoidably a foreign when in China.
I began with a premise: I wanted to build a different relationship with the subjects I shot, and I started focusing on immigration - namely the Islamic immigration in the North-East. I was living in Treviso at the time, I was in a particular context: Fabrica. That’s a 'factory' with people from all over the world, which provided an ongoing confrontation with them, but in turn I realized that the Treviso context was confronting them, too. I was suggested to continue on working on Islam in Italy, and that’s how I approached the first community until the whole project developed organically.
Could you tell us about the approach and relationship with the people you photographed?
I was quite frank, tranquil and straightforward. I would approach the leader of the community, told him I was making a book about Islam in Italy and that I wanted to tell of the Islamic community, Islam and all the facts about Islam that were unknown to people. They’d accept me with no fuss most of the times. It was quite a long process. In the beginning, it took me several days or weeks to get to know each community, and a lot had to do with the (specific) period of time. During the Ramadan months they gather daily, but otherwise they reunite on Fridays only. Moreover, each place was quite distant from each other, so it took time in terms of logistics, too. Once the project had been explained and introduced to the community, I would spend lots of time at the Islamic centers, and not only during prayers. I’d spend whole days there, I connected with the community and I gradually managed to document it. So the approach was quite natural, and they did welcome me. Certain communities had rather I didn’t take pictures - but the mere fact I wouldn’t take pictures didn’t imply I wasn’t being welcomed in other ways. In general, I’d say that both reactions and relations were positive. Obviously, as any photographer knows, in any given context there are people who don’t wish to be photographed - especially during such an intimate situation as praying.
If I were to think of the same situation in some other non-Islamic community, it would probably be more difficult to be let it. In the past I tried to make reportages on the Korean and Chinese Protestant community, and they turned out to be much more secretive. Instead, the Islamic communities I’ve approached were eager to reveal themselves, talk to me and teach me a number of aspects of their multi-faceted culture. Therefore it’s difficult to assimilate everybody under the same category, for nationalities and communities are heterogenous and originate from a myriad of different countries. This is another side of the project, actually: each community was unique in itself, regardless of the main nationality.
What portrait of North-Eastern Italy do you think can be drawn from the book?
I focused on the North-East because that’s where I’m from and where I used to live. The initial idea was to tell the story of the Veneto region, and confront with certain aspects of the Treviso area and the rest of the region I didn’t identify with or disagreed with. Besides that, the North-East comprises different realities and you can’t draw one single picture of it - I’ve documented an aspect of Muslim immigration that is simultaneously unique within North-Eastern Italy and the rest of the country, and quite similar to other European countries and the rest of the world. What are the peculiarities of the North-East? I was especially interested in producing a urbanist photograph, that is the mapping of the places that tell the story of the land despite being used for other purposes - and what happens on the inside.
So on one hand, [the book] tells of the relationship between the Islamic community and the land; on the other, it’s a picture of the North-East that starts with warehouses and a certain type of architecture. North-Eastern Italy and the Veneto region depend on immigration deeply, and this is another aspect that led us towards the project. Indeed it is has a double soul: suburbs and factories are used both to create wealth and produce goods, and to offer jobs to immigrants. It’s the very territory that needs workforce, and immigrants can satisfy this demand. In the same area or type of structure where wealth is generated, they can also practice their religion - sometimes more openly than in other places.
As for the fact of being hidden… It’s not quite clear whether it’s the community itself that hides away or the society that (partially) forces them to. There are also “practical” aspects, you could say: on one hand, the Islamic community - or any community that’s not been in Italy long - doesn’t have the financial resources to purchase venues downtown (they do need large spaces, so warehouses have inferior costs and allow for a greater number of believers to pray); on the other, municipalities need ask themselves where they want these venues to grow. Confining them on the outskirts seems quite paradoxical to me, because it’s counter-productive both in terms of integration of the community and not security-wise.
So I’d say the situation is rather critical in the North-East, also considering that this matter isn’t dealt with in a structured way in Italy. For instance, the Islamic community has a connection with the Treviso municipality, but when the mayor changes so does the relationship: it’s unimaginable that the second largest religious community in Italy keeps being subjected to ever-changing rules, and has to switch venues because of mere neighborhood reasons. Mayors ought to have guidelines both for citizens and the very communities, because the lack of them generates tension - not integration.
Hidden Islam has been awarded Best Book of 2014 very recently. They’ve said: “After seeing it, you won’t be able to stop thinking of what might be hidden in your hometown”. How did you discover what was hidden in the area where you developed your project and what reaction did it trigger in you?
In general, some places are more well-known than others (e.g. shops in central areas), whereas others are less renowned, like warehouses in industrial areas. It’s unlikely that they are really “hidden”, because neighbors usually find them out. I myself knew in which area there was an islamic center; then I’d go ask and the neighbors knew, because the cars arriving on Fridays gave away the location. It’s not something that happens secretly in the evening or at night.
As I moved from one community to the next at the beginning of the project, I’d follow the local newspapers of the North-East. We have plenty of papers and each of them featured articles about mosques - indeed there’s been a great debate around prejudice and “Islamophobia” ever since 9/11, not only in the aftermath of Paris. This is the premise to the whole project. In my area (Treviso) there was huge tension between the Islamic community and the locals, and the papers went on about the possibility to open an Islamic center. I would go and look around to discover Islamic centers. Little by little, [my research become easier] through word of mouth. Moreover, thanks to technologies such as Google Maps and Google Street View, the community has started to put their praying venues on the Internet so as to be easily identifible by the believers. The community itself still needs to be structured - that’s why there are so many websites - and so by putting together all these pieces I’ve managed to complete a mapping of the locations. Although it’s still unfinished, the mapping has turned out much more consistent than we initially expected. While looking for these locations I came across a number of other places I was unaware of, and so I’ve also discovered the existence of illegal warehouses of the Chinese community, as well as other religious communities (see the African Protestant orders). You could say the scene is quite varied, and the Islamic community is more visible than others because it’s got the largest number of believers who gather on Fridays.
These are difficult times for the “traditional” publishing industry. How and when does your idea for publishing company Rorhof generate? [Nicolò is co-founder together with Eleonora Matteazzi].
Before founding the company and publishing books, I confronted with some editors. I had friends who had self-produced editorial projects and I’d received feedback about the self-publishing I was about to commence - but there was the constant problem of a part of my work that I cannot do alone, as I take care of manifold tasks. So everything started when my colleague and co-founder Eleonora Matteazzi decided to embark on this project with me. As of now it takes a lot more dynamism in the business, and many traditional establishments like publishing companies do not allow this.
We are a very small business (there’s just three of us), and everything is developing. Once you take on too many projects, you jump right into the circuit of the publishing industry. Despite a moderate success, we are experiencing some difficulties at the moment, and we don’t want to succumb to over-ambitious projects. The idea is to go back to self-production and a particular vision of the publishing company and the photographic projects, intended as editorial projects with a fil rouge and a book series. Yes, that’s the idea: to make a book series.
How do you distribute your books?
It all happened very quickly. We distributed a lot at fairs, where bookshops saw our book and contacted us - and so we managed to build up a small network of bookshops. Currently I’m trying to figure out to what extend we shall proceed with a [single] distributor. For practical reasons and considering I’m now without Eleonora (she’s moved to Paris and she had to detach from the publishing company a little), I’ll probably rely on a distributor for extra-European countries, while I’ll keep managing the bookshop and the fairs myself.
Layout and editorial object create meaning per se. Unfolding the pages of Hidden Islam the reader “discovers” the secret places you identified almost “physically”. The other books of your publishing company have distinct peculiarities, too. Where does this great attention for the book generate?
These projects are born as books in themselves, therefore I need for the photo-book to bear a highly strong conceptual force. The way you hold it in your hands and read it, the way pages are browsed… It’s about aspects that make the book a necessary object to be printed - and which is not replaceable by iPads or similar reading devices yet.
With regards to Hidden Islam, the aesthetic and graphic part of the book and the 'mapping' had been clear in my mind since year one. As for the photographic part, I created a series of dummies over the years, and each of them ended up following a certain direction. When I reached the final idea of the pages unfolding, the whole project of the exteriors sprang up.
There was an aesthetic vision of what the book should have looked like - that is not a photo-book with the traditional portfolio style. I’ll say it was born organically - you photograph and draw, and gradually you understand what needs to be re-shot and re-drawn again.
The photos of the exteriors do not match those of the interiors at all times. The interior pictures were conceived as the idea for telling the inside of the community, whereas the photos of the exteriors represent a very rigorous mapping, and bear an equally rigorous vision of the whole subject matter. The lack of correspondence is also due to the fact that I didn’t gain access to all the venues - in some cases I didn’t even try to. I followed the community intensively for a number of years and eventually I reshot all the exteriors following the mapping I’d managed to create.
The very idea of the book (which I regard as one of its strong points) is to juxtapose two different photographic languages. I think of books in a very logical way, and they are to follow a strict logic: one of the aims was to hand the book to a given person without having them understand that there’s a book within the book. Therefore the layout and the use of different languages has helped to stimulate the interest to open the pages by creating a strong impact. There are two different conceptual paths, too: on one hand, there’s the report on the exteriors and the external part of the community with a rigorous methodology; on the other, on the inside of the community, there are more complexity, color and a different spiritual approach. The idea was to create a dialogue or a contraposition between these two realities, because that’s what the project is all about.
Rorhof’s latest publication is Hidden Islam - 479 Comments, an edit of the book comprising the debate that first came out in article from The Guardian. It’s the case of a photographic work that manages to influence social debate by providing sociological, anthropological and journalistic starting points. Did you imagine a reaction of this sort? Do you believe that photography can bring along social changes? What role can it play within the public debate?
I honestly never believed it would work so well in the photographic world. Over the years it’s not like the project had not been understood or awarded recognition, but I felt as though it wasn’t being understood in the way the book succeeded to instead. I think this was due to the fact that it was born as a book itself, and as a book it had its own reason to be - whereas as a report it failed to match the same strength and depth of research. Photography is a language and it all depends on what you do with this language: it’s hard to say whether photography is capable of stimulating social changes… If one says something, it depends on what they say and how they use it. Photography is developing in manifold different fields and with varied characteristics, so it’s a bit like saying: “Can music change society?”. I don’t know… It can and it cannot. It has its own public realm that may influence everything or nothing. I’ve used it for documentary purposes and to create a book which, in turn, boasts an autonomous path within society. I think [photography] is an extremely powerful language that succeeds to communicate things other languages fail to - take a purely scientific research: it might not manage to do the same. I’ve based Hidden Islam on researches conducted by other sociologists, but these studies don’t have the same validation as Hidden Islam. Nowadays photography has a communicative power that’s a great deal bigger than it used to be. Many more people take photos and pictures, and they are more educated in terms of photography - and they know how to read it.
Have there been reactions locally?
I think so. Seven months is a relatively short time for a photo-book, so it’s hard to say. I’ve received a number of interviews (and they do keep coming) - lately, even from papers and TV channels I didn’t expect. Although we’re currently re-printing it and so it’s not usable as a product, it’s interesting to see how the Internet has given it such a distribution that goes beyond the physical book - even in branches of society I didn’t really expect to be reached.
In the local papers reactions were generally positive, and [the book] is currently spreading in the area. The aim is for it to become a tool of discussing the subject matter, and somehow that’s what it’s becoming. I hope it leads the discussion on a different, more “calm” and sociological level - more humane, even. We’re talking about immigration after all, and it’s a general question that isn’t limited to the Islamic world.
We should open a wider talk on immigration in Italy and Europe, on how we behave towards the Constitution we believe in, and we must ask ourselves a few questions. The times are changing: we either keep up with them or else we ought to re-consider the idea of democracy as we’ve intended it until now.
Martin Parr wrote the introduction to you book: how did you meet?
We had done an internship together at Magnum for six months and I got to know him during a shooting in 2007. At the time I’d shown him my portfolio with the first projects from China, and immediately we developed a sort of mentor / student relationship - which lead him to follow my project over the years. Hadn’t it been for him, this project wouldn’t exist. Not many people believed in it except for him. As much as the project might seem catchy, he’s had a lot of patience - whereas many others just stopped following it at some point. Instead, he insisted that he wanted to see the book [completed], and that I continued. And I did continue and finish the project: partially because it was him and partially because I knew he cared for it. It went very well, so it felt natural to ask him to write the introduction.
La laguna di Venezia constitutes a particular work, too. The zig-zagged borders of the photos remind of the postcards of some provincial place. Was this the intention? What’s the message you want to convey beyond what one can read on your website?
Yes, that was the intention. We wanted to give back some “magic” and a certain aesthetics to the now glossy postcards of a city by using a purely documentary photography. We wanted to give back a contemporary image of Venice, and the shape of the borders reminds the old-fashioned borders of postcards and stamps. We create printing sheets from which we cut out the postcards one by one, therefore most of the publishing it handmade by us at home.
It was an idea to simplify postcards, and to simultaneously provide a particular look that they’d lack otherwise.
How do you see the self-publishing sector today? How do you think it can evolve?
Self-publishing is going really well. What I’ve noticed attending fairs in the past year is that traditional publishing companies find it difficult to keep up with projects. They do sell, too, but much of the self-publishing world is changing the way an editorial product comes to life and the way a book is created. This in turn has consequences on the way it is photographed, and on photography itself. There’s a different relationship with photography. It’s not like it used to be. It’s much more “playful”, and there’s a more spirited relation towards the technical aspects of photography and publishing. First and foremost, I think self-publishing is benefiting the visual storytelling (particularly the photographic storytelling), the very narrative structure of the book, and what you can create through photography with a physical object.
A language of its own is being created, and it’s a highly stimulating time.
What’s your next publication going to be? Could you give us a sneak peek?
We released a new project in December - a book on documentary photography, a catalogue-book, and it’s the first chapter. As an object, it’s got a very strong setting that follows our editorial line, and it’s like an extract of the book. It comes in a transparent box, and it lacks both the introduction and the following chapters. Being the first installment, it’s called Chapter 1 - The Hierarchy of Images. It’s a catalogue with 3 texts presenting 3 different authors who work in the art world and use photography through different approaches: Mishka Henner, introduced by Marco Bohr, Joachim Schmid, introduced by Garry Badger, and Tobias Zilony, introduced by Seraphine Meya.
At the moment I’m working on another book that’s going to be presented in mid-April, if all goes well. It’s by another author and keeps an artistic vision of the product. In both cases they are books or catalogues that born in collaboration with Bolzano’s Foto-forum gallery (where I’m one of the executives). Their concepts are conceived by me both in terms of curating them and idea-wise. Well, you just have to wait for the next book! Anyway, it’s always me who chooses the authors and how to make the book.
We know you attended the Photography course of Fabrica, but how does your story with photography begin before that?
It originated before Fabrica. I used to be fond of photography ever since high school, but I was uncertain on what to study afterwards. All the things I was undecided about gravitated between the art world and political sciences. Then I studied languages and when I worked in China my passion for photography grew even more, so I started working as a photojournalist. I moved to Fabrica after Magnum. I loved and I still love Magnum. It’s a place where I learnt more than photographers do when they start. From there, my path went on in a zig-zag, but always organically.
Which photographers do you turn to for inspiration?
There’s a lot of them. Technically speaking, I interiorize a number of styles. It depends on the project. I work a lot on a conceptual level. If I believe that a certain style fits a given body of work or if I have an idea of how it should be, I develop it and try to make it mine. In the first years I learnt a lot from Magnum photographers. Then, as I became part of Magnum, it turned out to be most important experience in terms of technique. I’d see lots of photos and photographers at work, so I learnt all the ins and outs, the organization, the logistics and so forth - which are essential to developing long-term projects. Of course Martin Parr [inspires me] a great deal. There are also artists who work with photography. As a person, I have a quite varied taste that’s not limited to the photography world.
After these important acknowledgments, how do you manage your time between your work as a photographer and the publishing company?
Actually I’m not shooting much at the moment. I teach photography, which is my main occupation right now and so it will be for a while, as I’ve just only started a new course. So far, I’ve taught in a prison - I’ve done a workshop for the past two and a half years. Soon I’ll start a new course at the University of Bolzano in the Art & Design Department - and this occupies a lot of time. The same goes with the publishing company, including the organizational part and the layout of the books. I wish I had more time for photography, but at the moment I don’t. All in all, it’s okay as it is. It’s good to detach a little. I’m working on the photographic material of other authors and I love this, too. My projects are long-term ones anyway, so there are phases of full immersion that alternate to “detox” stages where you elaborate and study editing. The process itself is very fluctuating, and that’s the way it should be.
I’m working on several personal projects. I’m making a book about the place I come from and the concept of “heimat” (a German concept that can’t be translated into any language) - it literally means “the place where one comes from”… that is your homeland, not your physical household. It can be extended both to your hometown and your family. This project is very much based on the image I have of my homeland and the way I perceived it as a child. I’ve also shot another project, but the book isn’t finished yet because I’m collecting material on the Italian army - and it’s focused on the concept of conflict and crisis. They’re all about documentary photography and they still deal with the mapping of the North-East - in relation to which Hidden Islam stands as the chapter for a more general debate, in the fact that it patrols the place where I live and that I know better. All these works start from a map and they end up telling various aspects of it, be them personal or documentary. Still, the idea is that of a long-term, wider project.
You are very much focused on the photo-book as an object of peculiar features. Have you ever thought about backing this up with multimedia projects - both as supporting and as stand-alone works?
Yes, I’ve got a few ideas for digital books, as well as for printed books. So I am still to understand which way to go, and [at the end of the day] you do whatever comes - I can’t really think of a plan to follow. I try and intercept how things go, and if particular inputs come up I’ll decide whether to develop one over the others. I’ve an idea for a book, but the digital form must be sustained by a strong reason. The book I want to make for digital devices has its own conceptual ratio. The idea behind Rorhof is to produce publications that are highly specific, and generate a reflection on the publishing industry itself - that’s why I have no interest in making books that are mutually similar.
Who do you pass the baton to?
To Max Pinckers, a very young yet extremely interesting Belgian documentary photographer.
The articles here have been translated for free by a native Italian speaker who loves photography and languages. If you come across an unusual expression, or a small error, we ask you to read the passion behind our words and forgive our occasional mistakes. We prefer to risk less than perfect English than limit our blog to Italian readers only.
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