Giulio Di Sturco è un fotografo italiano nato nel 1979, vive e lavora a Londra. Ha studiato fotografia presso l’Istituto Europeo di Design a Roma e successivamente ha fatto parte del VII Mentor Program e della Joop Swart Masterclass. Dal 2008 collabora con alcune delle più importanti organizzazioni internazionali come Greenpeace, MSF, Unitaid, Nazioni Unite, l’OMS e Action Aid.
I suoi lavori sono stati pubblicati ed esposti internazionalmente, ed ha ricevuto diversi premi e riconoscimenti, tra cui il Sony World Photography Award, il POY, e tre volte il World Press Photo.
Per circa dieci anni Giulio Di Sturco ha fotografato il fiume Gange. In un viaggio di più di duemila chilometri, ne ha seguito il corso partendo dalle sue sorgenti sul ghiacciaio Gangotri, fino alla foce, nel golfo del Bengala.
Da circa 4000 anni il Gange è al centro della cultura indù. Venerato come una dea nel pantheon induista, il fiume ha mantenuto un ruolo fondamentale nella costruzione del mito dell’India come nazione moderna e post-coloniale, fino ad essere legalmente riconosciuto come “entità vivente” dall’alta corte dello stato dell’Uttarakhand, nel 2017.
Al centro del mito quindi, forse anche al centro di un certo nostro immaginario dell’India, ma soprattutto al centro della vita materiale di diversi milioni di persone: sulle sue rive e dentro le sue acque si svolgono innumerevoli attività umane, come lavarsi, lavorare, spostarsi, fino all’esservi cremati.
È Ganga Ma, madre Gange: nelle sue acque ci si purifica dai peccati e si guariscono le malattie del corpo. In famiglia si tiene spesso una boccetta d’acqua del fiume per chi, infermo, non potesse arrivare alle sue rive.
Ma il Gange è anche uno dei fiumi più inquinati del mondo: da scarichi industriali, liquami umani e animali, con dei livelli di contaminazione elevatissimi, e le dighe che ne imbrigliano il corso ne hanno modificato l’ecosistema e la capacità di “ripulirsi”.
Come per una persona, Giulio Di Sturco ha realizzato un ritratto del fiume, inevitabilmente singolare e collettivo insieme, dove la presenza umana punteggia un lungo corpo fatto di acqua, terra, pietra, piante e - alla sua origine - ghiaccio.
Immerse in una luce lattiginosa, le immagini di Ganga Ma hanno una qualità pittorica che rivela la materia documentale del progetto: un mondo quasi sospeso, nel lento racconto di un grande organismo vivo e ammalato.
Ganga Ma è diventato un libro edito da GOST books, accompagnato da due saggi della scrittrice e ambientalista Vandana Shiva e della curatrice Eimear Martin. Presente anche ai Photaumnales di Beauvais, il progetto è adesso in mostra presso la galleria Podbielski Contemporary, fino al 15 novembre, a Milano.
Gabriele Magazzù
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