Angelo Ferracuti è uno scrittore, reporter e sceneggiatore italiano. Nei suoi libri ha raccontato il mondo operaio, i piccoli paesi e l'emigrazione. Ha sempre avuto una relazione speciale con la fotografia, coltivata con l'amicizia e la collaborazione con alcuni fotografi a lui vicini per affinità ed interessi. Insieme a Giovanni Marrozzini è stato protagonista di uno dei nostri Incontri su Fotografia e Parola.
Per Phom Ferracuti scrive qui di cosa significhi secondo lui raccontare con le immagini, delle relazioni tra fotografia e letteratura, e del legame con tre fotografi che lo hanno segnato profondamente.
Sono stato sempre attratto dalla fotografia. Il primo ricordo che ho è l’unica foto di mio nonno, che si chiamava come me, Angelo Ferracuti, ritratto negli anni ’30 con la faccia appoggiata alla sagoma di legno nello studio del fotografo. Il secondo è un libro di criminologia che trovai nella biblioteca paterna, corredato da foto raccapriccianti di persone uccise, o morte per suicidio, che guardavo di continuo e ossessivamente da bambino, cercando di ammaestrare l’angoscia. C’erano uomini che s’erano gettati contro un treno, quelli uccisi a coltellate da efferati criminali, omicidi borghesi dentro ville sontuose, corpi riversi sul pavimento e scie di sangue uscito copioso da parti del corpo.
Ma ho incontrato la fotografia in senso “artistico” quando una rivista che si faceva a Fermo, nella mia città, “Garofano Rosso”, pubblicò in un numero monografico un racconto di formazione di Luigi Di Ruscio, “Apprendistati”, insieme a un reportage fotografico di Luigi Crocenzi, “Andiamo in processione”, contigui per tematiche, che era già uscito su “Il Politecnico”, di cui il fotografo era stato collaboratore assiduo.
Crocenzi l’ho anche frequentato, giovanissimo, alla fine degli anni ’70: era tornato da poco in provincia dopo una lunga stagione passata a Milano, dove aveva lavorato nell’editoria, la città alla quale aveva dedicato un libro, curato per Electa, con immagini di Scianna, Cresci e altri, e dove aveva incontrato Elio Vittorini, con il quale collaborò alla prima edizione di “Conversazione in Sicilia”, uscito da Bompiani nel 1941 con suoi 168 scatti.
Le foto di Crocenzi, che trovo ancora oggi bellissime, sono creaturali e naturali, molto esistenzialistiche, in un bianco e nero povero, francescano. Il conio realista di quelle fotografie credo che mi abbia in qualche modo subito attratto per una sorta d’intima consonanza, perché anche la fotografia con il suo stile, così come l’arte pittorica, il cinema, e molte altre cose, fanno parte della formazione profonda di uno scrittore, ovviamente insieme alle opere di letteratura, che ne costituiscono il principale fondamento. Erano foto assolutamente sobrie e non leziose, ma in virtù di questa loro povertà formale, ancora più forti dal punto di vista espressivo, e s’innervavano nel testo di Vittorini creando un virtuoso intreccio di linguaggi.
«Quelle foto agre di Crocenzi fatte di volti, di gruppi, di persone e paesaggi, sono molto narrative, si pongono il problema di raccontare più che di documentare»
Per me la fotografia ha nutrito due aspetti della mia scrittura che considero fondamentali, cioè la cura del particolare da un certo punto di vista, come connotato personale ed esistenziale, nonché riferito ad una condizione psicologica e storica, e la costruzione del contesto antropologico dentro il quale un personaggio, o nel caso del reportage narrativo una persona agisce, nell’altro. Per questo, amo molto i ritratti. Amo i ritratti perché a me interessano le persone, e i miei reportage sono principalmente fatti d’incontri empatici, come credo avvenga tra i fotografi e le persone ritratte, si crea sempre un rapporto molto forte legato a un linguaggio non verbale, legato ai sensi e al vissuto. Quelle foto agre di Crocenzi fatte di volti, di gruppi, di persone e paesaggi, sono molto narrative, si pongono il problema di raccontare più che di documentare, come invece accadeva a molta fotografia di quegli anni, ma anche di adesso.
E poi è lui che inventò il “racconto fotografico neorealista”, e uno dei primi in Italia – come Vittorini nella letteratura – a interessarsi di un tipo di fotografia sociale che faceva del reportage qualcosa che andava oltre la singola immagine, che lui definì un “film immobile sulla pagina stampata”, con le foto che riverberando una nell’altra ne potenziavano la forza narrativa. Probabilmente Crocenzi arrivò a queste conclusioni attraverso “Americana” e le foto di Walker Evans, l’autore di quel libro fondamentale che è “Sia lode ora a uomini di fama”, il magnifico reportage sulla grande depressione con i testi dello scrittore James Agee, un prototipo novecentesco del reportage.
Quindi per me l’incontro con la fotografia è stato anche un destino geografico. Vengo, infatti, da una terra, le Marche, storicamente fotocentrica, abitata da tante generazioni di fotografi (Giacomelli, Ferroni, Lorenzo Cicconi Massi, ecc…), anche se l’incontro con Crocenzi fu abbastanza fondamentale. Ricordo pochissimo dei nostri scambi (andavo a trovarlo a casa sua, stavamo ore e ore a parlare, soprattutto di politica), perché avevo sedici anni, ma Luigi, sapendo che volevo scrivere, mi parlava spesso del rapporto tra fotografia e letteratura, in particolare di Cesare Zavattini e di “Un paese”, che è un prototipo al quale ho pensato spesso quando poi ho realizzato libri con i fotografi; ma anche de “Le feste religiose in Sicilia” di Sciascia e Scianna, naturalmente, e le riviste americane, come Life.
Questo l’antefatto, senza l’incontro con Luigi Crocenzi, probabilmente oggi il mio scrivere sarebbe stato diverso: è come se anni dopo avessi sentito una sorta di responsabilità nel continuare nel mio piccolo una tradizione, come fu molto importante il cinema neorealista, in particolare quello di Pietro Germi, ma anche Rossellini, De Sica. E il tutto è avvenuto in maniera assolutamente involontaria, anche se Luigi, che veniva dalla cultura del PCI e dell’impegno civile, aveva un rapporto molto forte con i giovani della città, e conflittuale con i poteri locali, pur essendo lui nato in una famiglia borghese e molto ricca di Fermo.
Per molto tempo questa conoscenza di Crocenzi e la sua fotografia rimasero latenti, poi vent’anni dopo conobbi Mario Dondero, sicuramente l’incontro più importante della mia vita.
A volte neanche mi capacito del privilegio che ho avuto, ma lui non mi ha mai fatto pesare di essere una leggenda, e ci rapportavamo alla pari, anche quando un giorno mi chiese di fare insieme un reportage per il “Diario” sulle morti per amianto alla Fincantieri di Monfalcone.
«Se Crocenzi è stato il viatico, Dondero ha compiuto un vero e proprio deragliamento dello sguardo»
Con Mario s’innescò quasi subito una sorta di cameratismo affettuoso e un grande rapporto di stima, con una condivisone estetica molto forte. Dico estetica per dire una visione del mondo complessiva, la postura politica, esistenziale, e l’idea che il momento artistico non è un fine ma una forma di militanza e di partecipazione alla vita, o come chiamava lui la fotografia “il collante delle relazioni umane”. Se Crocenzi è stato il viatico, Dondero ha compiuto un vero e proprio deragliamento dello sguardo, e da quando l’ho incontrato, abbandonata per sempre la fiction, mi sono votato con passione civile al reportage narrativo nelle stesse forme, si fa per dire, che lui usava per i suoi racconti fotografici.
Dondero aveva un approccio passionale e nello stesso tempo morale, gli piacevano le persone che potevano essere rappresentative di una storia della Storia, c’era sempre un elemento politico molto forte nei suoi lavori, legato anche alla sua vicenda personale, era stato partigiano in Val d’Ossola, aveva vissuto il fascismo e il dopoguerra, era figlio di quella stagione. Ma ho sempre pensato che il nostro legame fosse così forte perché Mario era un fotografo molto letterario: non c’era reportage che facesse che non partisse da un libro, alle volte da un romanzo, la sua visione era molto condizionata dalla cultura, non solo dai fatti. Questo gli permetteva di andare oltre la soglia della cronaca.
Con Mario ho lavorato molte volte sul campo, abbiamo fatto insieme, concretamente, lavori che in me hanno lasciato un segno profondissimo. Lui tornava molto nei luoghi, in questo era molto meticoloso, i suoi lavori non finivano mai, dovevano strapparglieli di mano, era quello che chiamava “l’arte dell’avvicinamento”, una messa fuoco lenta e progressiva, scrupolosa, onesta. Ma la cosa più importante era tutto quello che accadeva prima di fotografare, il rapporto empatico che Mario riusciva a stabilire con quelli che i fotografi chiamano “soggetti”, ma che per lui erano persone con le quali con grande umanità si relazionava: “Non è che a me le persone interessino per fotografarle, mi interessano perché esistono. Diversamente, il fotogiornalismo sarebbe soltanto una sequenza di scatti senz'anima”, diceva.
Lui con modestia si definiva un fotogiornalista, anche se credo sia stato un fotografo artista che ha sostituito la macchina alla penna: scriveva benissimo e poteva diventare il Kapuściński italiano, anche perché avevano molte cose in comune, come l’amore per l’Africa, che hanno visitato negli stessi periodi. Durante i viaggi spesso si perdeva, anche questo è stato per me un grande insegnamento, lui era un uomo felice, diceva “ho gabbato lo santo, mi pagano per andare in giro a fotografare”.
Si perdeva perché magari aveva conosciuto una persona, e andava con lui perché attratto da un’altra storia ancora, deragliando. Insomma, Mario cercava di tenersi lontano da tutto ciò che era mondano ed estetizzante, inoltre non aveva paura di rischiare su quel terreno militante che molti intellettuali avrebbero definito retorico, cioè non aveva nessun timore di fare anche il politicamente corretto, perché non lo faceva come lo fanno i fotografi e gli scrittori piccolo borghesi, lui lo faceva in modo onesto schierandosi, mettendosi dalla parte degli ultimi, ma lo faceva anche come atto estetico nel non essere estetizzante.
«In Argentina quelli come Mario li chiamano vago, che mi pare anche una bella parola»
Qualche anno prima di morire mi disse che voleva fare un viaggio insieme a me, che poi sarebbe potuto diventare un libro, voleva andare in Albania. In realtà a lui del libro, secondo me, importava poco, voglio dire del risultato estetico: semplicemente aveva voglia di partire con me, salire sopra un’automobile, quella che chiamava la voiture, scoria dei molti anni vissuti a Parigi, e andare all’avventura. In Argentina quelli come lui li chiamano vago, che mi pare anche una bella parola.
Quel viaggio non lo facemmo mai, però per fortuna resta un libro, “Il costo della vita”, uscito per Einaudi nel 2013, con dentro una quarantina di sue foto. Fu lui a dirmi di spedire una raccolta di reportage (“I tempi che corrono”, che poi uscì per Alegre) a Roberto Cerati, storico amico di Giulio e presidente della casa editrice, al quale piacque e lo passò alla saggistica. Da quei reportage mi chiesero di estrapolarne uno, quello sulla più grande tragedia operaia del dopoguerra, avvenuto sulla motonave Elisabetta Montanari, dove nel 1993 nel porto di Ravenna morirono asfissiati 13 operai. Con Andrea Canobbio e Irene Babboni, che curavano la collana Frontiere, pensammo di coinvolgere Mario. Lui il giorno dopo la tragedia c’era su quella banchina, macchina fotografica a tracolla aveva girato per la città, lo ricordava benissimo, solo che quelle foto non sapeva più dove fossero, ne avevo trovate un paio nell’archivio de L’Unità, e disperavo di poterne recuperare altre.
Intanto gli chiesi di tornare con me in quei luoghi, e insieme riuscimmo a raggruppare i vigili del fuoco che quel giorno memorabile recuperarono i cadaveri nella nave, Mario volle fotografarli nella sede del dopolavoro, mentre io li intervistavo. La sera, finito il lavoro, andammo in un ristorante, vicino alla darsena. Quando un giornalista una volta gli chiese qual era il momento più bello di una mostra, lui rispose, spiazzandolo, “dopo la mostra, quando si va tutti in trattoria”. Mentre mangiavamo, scoprì che le foto appese alle pareti le aveva scattate il cameriere che serviva ai tavoli, e subito dopo iniziò a raggiungere i tavoli dove altri stavano consumando i loro pasti, lodando le doti artistiche di quel signore dai capelli brizzolati con la giacca bianca, che schernito s’era ritirato in cucina.
«L'importante per lui era “esserci” quando accadeva una storia della Storia, fosse il Maggio francese, il processo Panagulis, o la nascita del Nouveau Roman»
Credo che anche tutto questo comunque facesse parte del suo modo di fotografare e di essere fotografo, questa grande gioia e voglia di vivere, l’energia che sta anche dentro le sue fotografie, dal conio realista e unicamente suo, miracolosamente naturali.
Mesi dopo, Mario tornò da uno dei suoi innumerevoli e continui viaggi con quello che definì “uno scampolo”, erano le foto scattate a Ravenna venticinque anni prima, e quando le vidi mi emozionai moltissimo, stavo scrivendo una parte di storia che non avevo vissuto e quelle foto ne erano la memoria visiva.
Un altro aspetto importante per lui era “esserci” quando accadeva una storia della Storia, fosse il Maggio francese, il processo Panagulis, o la nascita di un movimento letterario come quello del Nouveau Roman, quando riuscì a fotografare insieme Alain Robbe-Grillet, Claude Simon, Claude Mauriac, l’editore Jerome Lindon, Robert Pinget, Samuel Beckett, Nathalie Sarraute e infine Claude Ollier. Fotografare per lui significava essere testimone del tempo, in senso novecentesco, dalla parte degli ultimi, dei dannati della terra.
Negli ultimi due anni lavoro con una certa assiduità con Giovanni Marrozzini (insieme abbiamo fondato anche una Associazione culturale per la fotografia e la letteratura, intitolata a Jack London, e stiamo progettando un corso di studi da tenersi a Fermo), in particolare a un grande reportage sulle trasformazioni della Foresta Amazzonica, “Selva Oscura”, ma anche a “Vite private”, un racconto per parole e immagini sul fine vita, mentre abbiamo da poco pubblicato il resoconto di un “viaggio di viaggi” nel Cratere del terremoto del Centro Italia, “Gli spaesati” (uscito per Ediesse-Liberetà), declinandolo in modo diverso dal racconto mainstream, e cercando di usare i dispositivi narrativi ai minimi termini, scansando tutto ciò che poteva essere spettacolare.
In Amazzonia lui c’è già stato molte volte, e insieme siamo stati in Perù, Brasile e Venezuela, tra un mese andremo in Bolivia a raccontare il popolo Guaranì, facendo una puntatina anche a La Higuera, dove fu ucciso Che Guevara.
La dimensione del viaggio diventa anche un momento dialettico molto importante tra uno scrittore e un fotografo, si sperimenta continuamente sul campo, e insieme s’individuano attraverso lo scambio anche quelle che per ognuno sono scelta estetica e linguaggio, con eventuali punti di convergenza. Il lavoro sul campo diventa una specie di lavoro concreto e anche critico, dove il risultato finale è a volte affidato anche al coraggio, al destino o alla fortuna, ma sempre legato a un preciso taglio narrativo.
Poi c’è sicuramente anche una dimensione di avventura e di scoperta, “l’alternativa nomade” di cui parlava Chatwin, e dopo un po’ di anni che si fa questo mestiere si diventa un po’ viaggiofobici, cioè si ha proprio il bisogno fisico di spostarsi. A proposito di questo, mi colpì molto quello che scrisse Francesco Cataluccio, l’amico e curatore in Italia delle opere di Kapuściński: “Ryszard era un uomo molto inquieto: non riusciva a star mai fermo. Dopo pochi giorni che era nella sua bella casa zeppa di libri, sulla ulica Prokuratorska, a Varsavia, trovava sempre un pretesto per ripartire. Ho sempre pensato che sua moglie, la dottoressa Alicja, fosse una santa”.
«A Giovanni, come a tutti i fotografi narratori, interessa il racconto prima dell’immagine, come se tutto quello che vediamo nascesse dentro una storia più grande»
Viaggiatore e narratore come Dondero, come lui molto legato alla letteratura da un rapporto profondo, anche Giovanni è un raccontatore orale infaticabile e affascinante, ma molto diverso come fotografo. Se posso dire la mia impressione, credo che diffidi sempre dell’apparente realtà, forse pensa che la realtà menta, oppure che bisogni penetrarla, superare una soglia sensibile e vedere oltre la superficie, per questo non gli interessa solo il documento, quello della Storia, ma la condizione umana tout court nell’accezione più classica, nel suo parossismo, e che conservi qualcosa di universale. In questo coglie l’invisibile del visibile, cioè le cose della realtà che un occhio usurato dalla routine e dall’incapacità d’immaginazione non riesce più a cogliere.
Anche a lui, come a Dondero e tutti i fotografi narratori, interessa il racconto prima dell’immagine, o dopo l’immagine, meglio, perché oralmente riferisce il prima e il dopo dello scatto, o degli scatti, come se tutto quello che vediamo nascesse dentro una storia più grande di cui si è riusciti a cogliere solo una parte fortemente significativa ed evocativa, lo spleen, l’epifania, una operazione che accade nello scrivere in versi, nelle short stories, ma anche nel reportage narrativo.
Il nostro modo di raccontare, nasce proprio da diversi sguardi, il mio più classicamente reportagistico, anche se non giornalistico, legato ai fatti ma soprattutto alla ricostruzione narrativa del vissuto, il suo invece fatto di un “realismo lirico”, dove prevale l’elemento visionario, che è un altro aspetto della realtà. In “Selva Oscura” questa cosa è molto forte, Giovanni continua la sua ricerca fotografica e antropologica sui miti della creazione e sulle culture profonde che un nuovo “Genocidio”, tanto per citare il celebre reportage di Norman Lewis, rischia di estinguere, mentre io mi occupo di queste “vite di riserva” minacciate dall’economia turbocapitalistica, le forme di resistenza identitaria ma anche le sclerotizzazioni dovute a un vero e proprio “scontro di civiltà” tra antico e futuro.
Questa divergenza ci permette di lavorare negli stessi luoghi e momenti esplorando porzioni diverse di senso, e far sì che immagine e parola, apparentemente distanti, invece possano potenziarsi: in questo senso le fotografie non hanno una funzione decorativa, didascalica, ma diventano insieme alle parole fotoracconto, o fototesto, in una compenetrazione di parole e immagini nello spazio della pagina, così come lo avevano già immaginato Elio Vittorini e Luigi Crocenzi nel 1941 in quell’esperimento riuscito che è stato “Conversazione in Sicilia”.
Angelo Ferracuti
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