© Roberta Levi
Nata a Roma nel 1964, Renata Ferri attualmente vive a Milano. Giornalista, è caporedattore photo editor di Io Donna, il femminile del Corriere della Sera e di Amica, mensile di Rcs Mediagroup. Precedentemente ha diretto la produzione fotografica di Contrasto. Cura progetti editoriali ed espositivi di singoli autori e collettivi. Si dedica da sempre all'insegnamento. Membro di numerose giurie di premi fotografici italiani e internazionali, ha un blog dedicato a storie fotografiche sul Post.
Qual è la definizione che daresti del photo editor, oggi?
Persone che s’impegnano affinché la fotografia sia un linguaggio dell’informazione e della conoscenza.
Il fotogiornalismo, così come il giornalismo, viene da più parti considerato in crisi per diversi motivi: qual è la tua opinione?
Ci sono molte ragioni.
Credo che alla base ci sia una crisi culturale che riguarda l’informazione. La televisione prima e, negli ultimi due decenni il web, hanno cambiato la velocità di fruizione dei contenuti: sono aumentate le fonti e la difficoltà di verificarle. Siamo sommersi dalle notizie (non solo visive) che mettono alla prova la nostra capacità di selezionarle. Si vede tanto e si approfondisce sempre meno e, per quanto riguarda l’immagine, paradossalmente si aggrava il nostro analfabetismo a fronte di una continua stimolazione.
Giornalismo e fotogiornalismo sono stati finora legati dalla comune sorte: il declino dell’editoria tradizionale, la mancanza di una nuova progettualità per la stampa cartacea, quotidiana e periodica, la difficoltà di comprendere e dunque produrre l’informazione sul web, hanno indebolito il giornalismo di immagine e parola. La crisi dei grandi gruppi editoriali, che pagano il prezzo di aver speso molto (e male) nel passato, vede una costante riduzione d’introiti pubblicitari a cui fa seguito la mancanza di investimenti e il necessario ricambio generazionale. Il risultato è una paralisi del mercato dell’informazione.
Si è formato un esercito di giornalisti precari e di fotografi freelance che, se è vero che hanno molti più interlocutori – le testate on line, i social network, le web tv e ovviamente la stampa cartacea – allo stesso tempo non hanno un referente con cui dialogare, costruire progetti e crescere.
Se l’editoria è stata in passato la principale fonte di finanziamento, stimolo e visibilità per le storie fotografiche, è inevitabile che questa crisi abbia cambiato profondamente il modo di fare documentazione. Stiamo assistendo a una nuova forma di indagine indipendente che produce contenuti per essere offerti una volta fatti e finiti.
Per rimanere nel nostro ambito: il fotografo è un libero professionista o un precario – dipende da come si vuole definire – completamente scollegato dalla testata su cui pubblicherà il suo lavoro. Questa indipendenza forzata e l’assenza di committenza hanno in qualche modo costretto i reporter a diventare bravissimi: affrontano molti rischi, investono economicamente, consapevoli e capaci di offrire alla malata editoria storie complete e originali. Necessità fa virtù, ma per alcuni che riescono a portare avanti il proprio progetto, altri abbandonano.
Un altro effetto dell’indipendenza progettuale è stato quello, per i fotografi, di esplorare nuovi spazi di visibilità. Il fenomeno del self-publishing e l’incremento di produzioni editoriali sono un segnale evidente della grande vitalità della fotografia e della sua spinta propulsiva a creare (o scoprire) nuovi spazi di esistenza.
Cosa vedi nel futuro di questa professione?
È necessario ridisegnare la figura del photo editor.
È cambiato lo scenario, perciò chi produce e sceglie immagini deve essere più preparato rispetto al passato. Occorre fare i conti con il web e la sua velocità: evitare immagini già viste, rompere gli stereotipi, seguire la progettualità degli autori, partecipare agli editing, stare nella fotografia a 360°, come se fosse (in realtà lo è) un training continuo, cercando di avere uno sguardo attento sul mondo. Il photoeditor oggi deve essere una figura “ponte” tra l’eterogeneo universo della stampa e quello della ricerca fotografica. Un ruolo non riconosciuto ma che, per forza di cose, col tempo dovrà esserlo per mantenere indispensabile questa figura professionale.
Bisogna essere pronti, rimettersi in gioco, studiare. L’impegno a cui siamo chiamati, noi che ci occupiamo di fotografia, fa bene e è necessario a noi stessi e ai fotografi, per ricongiungere chi produce e chi utilizza le immagini in questi anni confusi e difficili e, mi auguro, transitori.
La sfida è già in atto: ridisegnare la soggettività di chi fa informazione, restituire identità e dignità a chi crea, scrive, disegna, fotografa e dunque anche il photo editor. Non è più tempo di svolgere funzioni di servizio per riempire spazi tra un testo e l’altro. Si tratta di fare cultura, osservare il mondo e filtrarlo per tradurlo in immagini.
Sopravvivrà chi si è preparato.
Quali sono le esperienze, a livello internazionale, che secondo te stanno tracciando direzioni interessanti da seguire su come fare giornalismo?
Sicuramente alcune testate online hanno saputo dominare la relazione tra carta e web: penso al Guardian, New York Times, Time, New Yorker, The Atlantic solo per citarne alcune. E altre, native digitali, hanno sfruttato l’esperienza del buon giornalismo per arrivare nella rete con nuova energia e solida esperienza: Mediapart, Politico, Quartz, Slate ecc. Per quanto riguarda l’Italia ci sono esperienze interessanti come Internazionale che, forte del successo e del consolidamento del rapporto con il pubblico, si è lanciato nella sfida del web creando un nuovo prodotto: senza cadere nel vizio di riprodurre dalla carta ai pixel, come se il web fosse un mero supporto. Trovo positiva e in vivace crescita l’esperienza del Post, testata su cui tengo un blog. Seguo Rivista Studio e Doppiozero, per l’approfondimento, mi sembrano esperienze interessanti. Per quanto riguarda i quotidiani online, mi sembra che La Stampa stia sperimentando bene e faccia da apripista per nuovi contenuti e l’utilizzo dell’immagine, mentre il Corriere della Sera tenta, di tanto in tanto qualche approfondimento con i webreportage.
Dall’osservatorio privilegiato della tua professione, cosa vedi emergere nell’ambito del reportage/fotogiornalismo? Magari dal cuore delle tensioni mondiali - pensiamo ad esempio a situazioni come l’agenzia irachena Metrography.
L’esperienza di Metrography ci insegna due cose: primo, esiste una fotografia locale che ha molto da dire; secondo, è finito il colonialismo fotografico. Per raccontare una storia ci devi essere, la devi conoscere, studiare e vivere.
Il “testimone” è un protagonista. Mi sembra una naturale evoluzione del fotogiornalismo stesso. E ciò non vale solo per i paesi alle prese con conflitti o disagi. Penso ai fotografi cinesi contemporanei, a quanto ci hanno detto del loro Paese: sfumature che nessuno straniero avrebbe colto se non, forse, dopo una lunga permanenza. Per non parlare della nuova generazione russa: la scorsa edizione di Visa Pour l’Image a Perpignan ha visto più fotografi russi che di tutti i paesi europei messi insieme.
La fotografia è un linguaggio universale e accessibile che consente un tirocinio indipendente. Molti grandi autori sono autodidatti: questo mezzo così potente e così semplice offre a ognuno la possibilità di raccontare. Per questo le esperienze “locali” che diventano elaborazioni collettive, ritratti antropologici, inchieste, mi sembrano un arricchimento non solo per i singoli autori ma per noi, che possiamo conoscere meglio e fidarci un po’ di più di una “fonte “, se così possiamo dire, diretta e partecipe.
Nella tua attività spesso viene citata la qualità come valore necessario. Cos'è per te la qualità?
La sincerità degli intenti e l’onestà intellettuale.
Di chi fotografa, di chi diffonde quelle immagini e di chi le utilizza.
Solo così si può ripristinare un patto di fiducia con chi le guarda.
Da photo editor come ti poni nei confronti della narrazione visiva? È legata alla capacità di una singola fotografia di saper raccontare o cerchi maggiormente lo sviluppo in un corpo di fotografie? Puoi farci degli esempi?
Se parliamo di fotogiornalismo, mi interessa il racconto per immagini.
Ho la necessità di avere una visione ampia di un luogo o di un tema: cosa succede prima e cosa dopo, mi servono più suggestioni per entrare dentro la storia.
L’immagine singola assolve una funzione differente, penso all’utilizzo nella prima pagina o nell’homepage dei giornali: dobbiamo introdurre (o sparare) una notizia, racchiuderla, sintetizzarla, suscitare la curiosità e l’emozione nei lettori.
Tendenzialmente diffido delle singole immagini poiché sono spesso frutto di un momento eccezionale e non consentono la lettura narrativa e la conoscenza del linguaggio e del punto di vista dell’autore.
Se invece vogliamo fotograficamente parlare d’immagine singola come ricerca artistica, in questo caso l’intento concettuale dell’autore è in quell’opera che non ha il prima e il dopo, non volontà narrativa ma è creata per contenere in se stessa tutto quello che l’artista vuole dire e suscitare in noi. Ma questa, è un’altra storia.
Come si caratterizza il rapporto tra photoeditor e fotografo? Quali sono le dinamiche che si instaurano?
Posso parlare del mio rapporto con i fotografi. Credo che non ci sia una regola.
Il mio si svolge a tavola. Se posso, e cerco di farlo capitare spesso, pranzo o ceno con i fotografi. È uno spazio libero, posso ascoltare le loro storie, chiedere dettagli e aneddoti. A tavola si evitano i computer o le stampe e si può costruire mentalmente la storia che poi si vedrà. Mi piace come espongono il loro lavoro, è un modo per entrare in relazione, per farmi un’idea e poi lasciarmi sorprendere, cosa che capita spesso. Ci sono descrizioni magnifiche e immagini modeste. E pranzi di poche parole che regalano una fotografia interessante e spunti per riflettere.
Normalmente i fotografi che incontro non cercano conferme del loro lavoro, al contrario, vogliono critiche, vogliono essere messi in discussione. La maggior parte di loro ha bisogno di aiuto per l’editing, per la sequenza da dare al racconto o consigli su come e dove presentarlo. Molto spesso vedo dei work in progress, lavori che hanno bisogno di prendere una direzione definita per cui hanno bisogno di suggerimenti riguardo ciò che ancora manca o è stato indagato troppo superficialmente.
Quasi nessuno viene a trovarmi per propormi dei lavori per i giornali di cui mi occupo. Paradossalmente sembra che pubblicare non sia più una priorità. Sarà per l’esiguità dei compensi o per la sempre più scarsa considerazione che hanno dell’editoria.
Certo è che la pubblicazione, in questo momento storico, non è la misura del successo del loro lavoro.
Recentemente hai curato la pubblicazione legata al progetto 4, realizzato da Terra Project con WuMing2. Qual è la differenza tra il lavoro in una rivista e il lavoro editoriale come questo? Puoi raccontaci qualcosa su questa esperienza?
Il lavoro di un progetto editoriale per un libro e quello che si fa quotidianamente per le testate, che siano settimanali o mensili, è completamente differente. Nel primo caso si progetta e i tempi sono sempre molto lunghi. Con i fotografi normalmente lavoriamo su un progetto a lungo termine. Scegliamo le immagini e costruiamo uno scheletro di sequenza. Una volta costruita questa traccia entra in gioco il designer che comincia a disegnare il contenitore. Mentre questo lavoro procede, cambiando molto spesso per esigenze di adattamento, si lavora sui testi: introduzione, postfazione, testimonianze, didascalie, biografie ecc. Mettere insieme tutto questo comporta un lavoro di squadra impegnativo e appassionante. Si vede nascere qualcosa che prima non esisteva e che, qualunque sia il risultato, rimarrà per sempre nella sua forma materiale e nella sua tracciabilità.
È come lasciare un piccolo segno, raccontare una piccola storia nella grande storia del mondo.
Io in questi progetti scivolo in una relazione empatica con la fotografia, ossessiva, fisica e molto creativa.
Fare giornali è diverso: ogni numero che prepari finisce nel momento in cui si manda in tipografia. Le pubblicazioni si dimenticano mano a mano che mandi via le pagine e cominci un nuovo numero. Resta la memoria delle cose che hai prodotto o pubblicato, di quelle buone e di quelle venute male di cui ti rammarichi. Per quanto possa essere appassionante, e lo è moltissimo, è qualcosa che non ti appartiene mai completamente. Si costruisce con la redazione che è un gruppo ampio e non sempre omogeneo: un giornale è frutto di molte mediazioni e molte differenti competenze su cui ha potere decisivo e finale il direttore.
Si vive sempre con ritmi adrenalinici, anche se si tratta di un mensile: c’è la chiusura, il timone da rispettare, i cambiamenti dell’ultima ora.
L’esperienza di 4 è stata molto difficile. Mettere insieme persone così differenti tra loro che non si erano mai incontrate prima, senza committenza e dunque senza una scadenza da rispettare, è stato come nuotare in mare aperto senza sapere davvero quale fosse la direzione. Non è nato come un progetto collettivo e forse per questo è stato difficile farlo diventare tale.
Abbiamo creato una storia fantastica partendo da fotografie della realtà, provenienti da diversi fotografi e da differenti lavori. Fondamentalmente è stato lavorare su un archivio, affondando dentro quattro anni di produzione e cercando di tirare un filo che consentisse la scrittura e la costruzione di un’opera compatta, con una sua omogeneità.
È stata davvero una grande sfida. Un triplo salto carpiato. Anni di lavoro, molte interruzioni, tante parole e una grande fatica.
Che prospettive vedi per la multimedialità? La consideri come una possibile “evoluzione” del fotogiornalismo, oppure uno strumento che si somma a pratiche consolidate? Pensiamo a lavori – anche molto diversi tra loro – come i multimedia del New York Times, a Hollow, e altri.
Sono molto contenta dell’ingresso della multimedialità nel fotogiornalismo. Per certi versi è un’evoluzione. Più in generale, sono molto ottimista per quanto riguarda l’informazione online e il ruolo delle immagini, fisse e in movimento. Credo che un giornalismo di qualità, d’inchiesta e approfondimento, possa e debba ripartire dai nuovi media, perché conviene. Fotografia, video, grafica, infografica, illustrazione e parola dovranno tornare a essere le lingue che deve saper parlare l’informazione per essere capace di interessare (e per vivere online). Non posso che confidare in una rinascita. E confesso che vorrei avere l’opportunità di contribuire a questa rinascita e vivere il privilegio di sperimentare. Oggi è inammissibile pensare di fare nuovi giornali senza dialogare con il web, cioè senza prevedere un doppio binario progettuale. Eppure succede e i risultati sono sempre gli stessi: testate che esistono per una stagione e chiudono dopo aver bruciato le risorse economiche e le energie professionali. Io ritengo che il vero investimento progettuale debba essere nel grande spazio del web. E’ indispensabile tornare a inventare per poi fare anche giornali cartacei ma in modo nuovo, alternativo al web, senza doppiare e senza scimmiottarsi.
Il web non è alternativo alla carta e viceversa. Hanno possibilità e fruizioni differenti.
Se fatti bene, funzionano entrambi. Quindi torniamo al discorso della qualità. Si finisce e si riparte sempre da lì. Di questo c’è bisogno, altrimenti non ne usciamo, assistiamo all’agonia contando le vittime.
Talvolta percepiamo una difficoltà nell’affermazione di un’identità chiara del reportage oggi, che sembra continuamente in tensione tra direzioni diverse: verso l’arte, l’autorialità, a volte verso la negazione di se stesso, e più in generale verso una contaminazione, spesso anche interessante. In che fase siamo?
Siamo più aperti. Meno ortodossi e rigidi. Per esempio, possiamo guardare ai conflitti da molti punti di vista.
Penso alle immagini che arrivano dalle guerre contemporanee: le agenzie di stampa offrono un flusso continuo che ci aggiorna sull’evoluzione dei fatti mentre le immagini dei protagonisti dei drammi, oggi produttori di testimonianze attraverso gli smartphone o semplici fotocamere, documentano la loro vita. L’impegno dei grandi maestri contemporanei che seguono i mutamenti di un Paese o di una problematica a lungo termine sono punti di vista individuali, visioni epiche.
Dunque notizie a flusso continuo, testimonianze private, grandi racconti, sono le molte lingue della fotografia. Nessuna sostituisce l’altra.
Se a questo sommiamo le possibilità che l’intensa storia della fotografia ci offre per comparare e approfondire la tragedia della guerra in altri luoghi o momenti storici, avremo l’opportunità di molte suggestioni e differenti piani di lettura.
Per fare degli esempi, mentre rispondo alle domande di questa lunga intervista, sono in corso alcune mostre che possono supportare la mia tesi: penso a quella alla Tate Conflict, Time, Photography o a quella al Mart di Rovereto La guerra che verrà non è la prima
1914 – 2014.
Nella fotografia contemporanea, in ambito autoriale, alcuni fotografi, con altri linguaggi, affrontano temi cari al fotogiornalismo offrendoci l’opportunità di un altro approccio alla guerra: Broomberg & Chanarin o a Raphaël Dallaporta, solo per citarne due. Altri come Gabriele Basilico con Beirut o Simon Norfolk con il lavoro The battle space, hanno scelto la fotografia documentaria per condurci nella suggestione/riflessione; i grandi scenari di Luc Delahaye e gli escamotage cromatici di Richard Mosse, hanno offerto originali punti di vista e, Josef Koudelka stesso, con Chaos ci ha proposto una rilettura del paesaggio ferito di assoluta potenza .
Mi rendo conto che l’esempio della guerra è molto ovvio ma, se ci pensiamo bene, è talmente iconico del fotogiornalismo che funziona perfettamente per segnalare il pericolo che corriamo di dimenticare altri stimoli possibili.
Le contaminazioni sono ricchezza e i linguaggi differenti le nostre migliori occasioni di fruizione: occhi, pancia, cuore, mente, pelle.
Certo, è fondamentale che ci siano i requisiti della risposta alla sesta domanda.
E come photoeditor, come ti relazioni rispetto a queste direzioni?
Come ho già detto prima, oggi i giornali non sono il terreno di confronto per la fotografia contemporanea. Non approfittano della ricca ed eterogenea offerta che c’è.
Sono legati all’immagine “illustrativa”, non documentativa. Non sono interessati a quella autoriale, se non filtrata da una concezione artistica ma solo se promette intrattenimento visivo.
Come photo editor mi pongo ogni giorno questi problemi: cerco di trovare dei varchi per proporre cose differenti ma mi rendo conto che non è il tempo della sperimentazione, della curiosità per il nuovo e (purtroppo) neppure per il vecchio. Fateci caso, l’utilizzo della fotografia d’epoca è sparito, con grande rammarico dei numerosi estimatori.
C’è una crisi d’identità che costringe al minor rischio possibile e obbliga a inseguire stereotipi consolidati.
Spero di avere presto l’occasione di pormi il problema della sperimentazione e della mescolanza di linguaggi perché, come amante della fotografia, m’interrogo costantemente e cerco di seguire quello che accade e di cambiare spesso opinione. Questa benefica confusione mi obbliga a farmi sempre nuove domande e a non trovare tempo per le risposte.
Come lavori con fotografi che hanno uno stile affermato e riconoscibile, quando ti trovi a commissionare un lavoro editoriale?
Quando affido un lavoro a un fotografo è perché ha uno stile riconoscibile e vorrei che trasferisse quella sua “riconoscibilità” nel lavoro che devo realizzare. Gli attuali budget a disposizione non consentono grandi collaborazioni con fotografi affermati che hanno giustamente diritto a un compenso economico adeguato. Per loro fortuna, hanno committenze istituzionali o industriali che li sostentano. Un piccolo esempio: se commissiono un lavoro a Luca Campigotto è perché voglio pubblicare una città fotografata con quelle luci, con quel suo peculiare punto di vista.
So già cosa farà e che sarà in linea con il giornale che sto facendo in questo momento.
Poi, ovviamente, in ogni lavoro c’è sempre una sorpresa, un’immagine inaspettata.
E’ il bello di questo mestiere.
Siamo sommersi dalle immagini, di cui siamo fruitori e produttori insieme. Quanto è importante ricercare un’identità visiva oggi, soprattutto in ambito editoriale?
Dipende se la domanda riguarda i fotografi o i giornali.
E’ un doppio gioco interessante.
Se sei un fotografo non devi cercare l’identità visiva, ti appartiene. Per questo ti poni come interprete della realtà, vuoi testimoniarla con il tuo linguaggio, con un segno forte della tua personale narrazione.
L’identità non è stimolata dal mercato editoriale e forse neppure da quello dell’arte. È un lavoro che si fa dentro se stessi, consapevolmente o meno, si trova la chiave interpretativa per guardare il mondo. La fotografia è il mezzo.
Il risultato non è misurabile con i successi economici o con l’esibizione del lavoro.
Ci sono autori straordinari il cui lavoro è stato apprezzato solo postumo.
Penso al caso di Vivian Maier, di cui mi sto occupando in questi giorni, solo uno dei tanti.
Ricercare un’identità visiva per un giornale è indispensabile per essere originale e riconoscibile, per conquistare nuovo pubblico e fidelizzarlo. Per questo è necessario essere progettuali e cambiare spesso, rimettere in discussione la linea, monitorare i risultati (non solo quelli di marketing o economici) e il rapporto con il pubblico.
A volte si ha l’impressione che la fotografia nei giornali e periodici italiani sia ancora legata ad un ruolo “di servizio”, illustrativo. Come giudichi l’editoria rispetto all’uso che fa delle immagini?
La tua domanda contiene già la risposta. E il mio giudizio è nelle risposte già date. Non è il momento per giudicare questa editoria. Essa stessa sa di essere al capolinea e ha bisogno di rigenerarsi. Succederà e avremo nuove occasioni di mettere in campo le competenze acquisite in questi anni difficili. Quando non puoi fare quello che vorresti e come lo vorresti, puoi solo scavare e migliorare, è il lavoro della talpa, che prima o poi esce dal solco.
Io sono certa che ci siano in giro molte eccellenti competenze: giornalisti, scrittori, designer, fotografi, illustratori. Stiamo tutti studiando per fare meglio.
Il libro fotografico – grazie al self-publishing, ma non solo – sembra vedere una rinascita. Si pubblicano libri sempre più curati nel concept e nella stampa: non credi che questo nasca anche dall’esigenza di staccarsi dalla fruizione di slideshow e portfolio in video, e ritrovare una dimensione tangibile della fotografia?
Tutto questo self-publishing è un po’ pericoloso e pure noioso. Tutti possono fare un crowfunding, racimolare quanto basta per disegnare e stampare i loro deliri visivi. Non sono convinta che tutto sia necessario. Ci sono molti libri di cui si può fare a meno e il cui senso è ruotare intorno all’ombelico dell’autore e, aggiungo, se un libro vende tre copie tu autore devi farti delle domande.
La mancanza di editori – come referenti – è insidiosa: ognuno vuole veder pubblicato il suo lavoro senza chiedersi se ha senso e se vale la pena.
Ma temo che non a tutti piaccia sentirsi giudicato da terzi.
Il self publishing nasce dalla difficoltà di avere editori che investono. Ma anche di editori che giudicano.
Il ruolo dell’editore non è quello di pagare un libro ma di capirne il valore e di diffonderlo. Si è persa questa misura e ci si riduce a fare un libro per sfuggire alle insoddisfazioni del mercato dei giornali, alla mancanza di compensi del web o a editori che pretendono budget e contenuto.
Nello stesso tempo però penso che molti libri autoprodotti servano ai fotografi stessi per riflettere sul loro percorso, per confrontarsi nei festival con altri autori e in questo senso non è negativo fare libri e produrseli. Basta non avere la pretesa (e l’aspettativa) di far diventare mucchi di fotine, stampate su carte gialline avvolti da cartoncini rilegati con spaghetti o da copertine morbide, fluorescenti, riciclabili e non, prodotti necessariamente interessanti per il pubblico.
Pochi lavori meritano la “dimensione tangibile della fotografia” come dici.
Io sono per avere meno libri, meno polvere.
Del tuo futuro di photoeditor invece, cosa puoi raccontarci?
Il futuro non si può raccontare.
E non vorrei rovinarlo con le previsioni.
Intervista a cura di Marco Benna
ENGLISH VERSION
Born in Rome in 1964, she now lives in Milan. She’s a journalist and director of photography of Io Donna, the weekly magazine of Corriere della Sera, and Amica, the monthly magazine of Rcs Mediagroup. She directed the photographic production of the photo agency Contrasto for fifteen years. She works on editorial and exhibition projects of both individual authors and collectives. She has always been dedicated to teaching. A member of various judging panels of Italian and international prizes, she has been keeping a blog on photographic stories on Il Post for five years.
How would you define photo-editors today?
I think photo-editors are people who are strongly committed to making photography a language of spreading information and raising awareness.
Photojournalism, similarly to journalism itself, is widely thought to be undergoing a crisis connected to various reasons: what’s your opinion?
I think that’s primarily based on a cultural crisis of information. First television, then the web have changed our perception of speed over the past two decades. As a result, we now have more sources of information, but the difficulties in verifying them have increased, too. We are overwhelmed by news (not merely visual ones) that really put to the test our ability to select them. We see a lot, but we don’t analyze as much any longer. As far as images are concerned, there is a paradox: our illiteracy level worsens as constant stimulation grows.
So far, journalism and photojournalism have shared the same fate. The traditional publishing industry is declining. There’s a lack of new plans for both newspapers and magazines. It’s difficult to understand and produce information on the web. All these factors have weakened editorial and photo journalism equally, and the big publishing companies are suffering from the consequences of having spent and wasted a great deal in the past. Now we’re facing a decrease in advertorial incomes and the much needed generational turnover is far from being a reality. The outcome is a paralysis of the information market.
Today there are countless freelance journalists and photographers. On the one hand, they have a wider audience (see online magazines, social networks, web TVs and - of course - printed press); on the other, they fail to find an audience to communicate, build projects and grow with. The publishing industry used to be the main source of financing, promotion and visibility for photo stories, but this crisis has deeply changed the way researches are carried out. We are witnessing a new form of independent reportages: photographers produce contents that are offered once they’re fully completed.
Sticking to our field: regardless of how you want to consider photographers (as freelancers or occasional workers), they have no connection with the newspaper/magazine which will publish their work. This is a kind of forced independence. Together with the lack of assignments, these circumstances have required photographers to become extremely good at their job. They take countless risks and invest financially. They offer the publishing industry original and exhaustive stories. Some manage to pursue their projects, others just quit.
Another effect of the independence of projects is that photographers have started to explore new spaces for visibility. The self-publishing phenomenon and the increase in editorial productions are a clear signal of the huge vitality of photography.
What do you see in the future of our field regarding photojournalism (by pixel and paper)?
I think it’s necessary to redesign the roles.
The scenario has changed, and those who produce and choose images must be more and better prepared than in the past. You must come to terms with the web and its speed - avoid photos that have already been seen, break stereotypes, follow the project line of the authors, participate in the editing process. Today photo-editors must bridge the heterogenous world of the publishing industry and that of photographic research. It’s not an acknowledged role yet, but it will have to be to keep this necessary profession alive.
We must be ready, reinvent ourselves, study. The commitment we’re called to when working with photography is a good thing for us. This commitment is necessary for us as well as for photographers, because it reconnects those who produce and those who use photographs in these confused, difficult and - I hope - temporary years.
The challenge is already taking place: [it’s about] redesigning the subjectivity of those who make information, giving back their identity and dignity to those who create, write, draw, take photos. It’s no longer the time to just fill in the gaps in-between texts. It’s about producing culture, observing the world and filtering it. It’s about translating the world into images that can come from photographers, from the web, from witnesses. We have open minds and all is possible. Only those who have prepared themselves to this will survive.
In your opinion, what experiences are tracing interesting directions to follow on how to make journalism on an international level?
There are certainly some magazines that have mastered the relationship between print and web - I’m thinking of The Guardian, The New York Times, The New Yorker and The Atlantic, only to name a few. Then there are other digital-born magazines that have exploited the path of good journalism and have gone online with fresh energy and solid experience: Mediapart, Politico, Quartz, Slate, etc. As for Italy, there are interesting publications like Internazionale, whose success and consolidated relationship with the audience have thrown it into the challenge of the web and created a new product - without the flaw of reproducing newspapers on pixel, as though the web were a mere device. The experience of Il Post is one I find interesting and is growing vividly - and I keep a blog on it. I follow Rivista Studio and Doppiozero for in-depth analysis - they seem quite interesting. As for online newspapers, some of them are experimenting well and acting as forerunners in terms of new contents and use of images. They are trying to deepen every now and then certain subject-areas with web-reportages.
From the privileged standpoint of your profession, what do you see emerging in terms of reportages and photojournalism? Perhaps right from the core of global conflicts - we’re thinking of the example set by Iraqi agency Metrography.
Metrography teaches us two things: first, there is [a type of] local photography that has a lot to say; second, the era of photographic imperialism is over. To be able to tell a story, you have to be there, know it, study it and live it.
The “witness” is a protagonist. It looks like the natural evolution of photojournalism to me - and this doesn’t apply to countries torn by wars or poverty only. I’m thinking of contemporary Chinese photographers, what they told us about their country… Aspects that no other foreigner could have caught - unless, perhaps, if they had stayed a long time on location.
Also the new Russian generation is really interesting: during the latest edition of Visa Pour l’Image [2014] in Perpignan I saw more Russian photographers than all the European ones combined. Photography is a universal and accessible language that allows for an independent traning. A number of great authors is self-taught: this means, so powerful and so simple, and gives everyone the chance to tell [a story]. That’s why I feel local experiences will turn into collective collaborations, anthropological portraits, reports. And I think they don’t only enrich the single authors, but us all - because they come from a direct and partecipative “source” that we can trust more.
Quality is often cited as a necessary virtue in your profession. What is quality to you?
The quality of photojournalism depends essentially onthe sincerity of the intentions and intellectual honesty. [The honesty] of those who take photographs, who spread those images, as well as of those who use them. That’s the only way to rebuild a mutual trust with the viewers.
What’s your position as a photo-editor towards visual narration? Is it connected to the ability of a single shot of telling a story or is it development that you seek the most within a bulk of photos? Could you give us some examples?
What I’m interested in is telling a story through images. I need to have a broad vision of a place or a subject: what happened before? What is going to happen? I need many suggestions to get into the story.
The press needs single shots, too, but they have a different task. I’m thinking of the first page of a newspaper or a homepage: we have to introduce (or launch) some news, wrap it up, sum it up, and stimulate the curiosity and emotions of the readers.
Usually I don’t trust single images, because they are often the result of an exceptional moment. Single images don’t allow to read a story, to really know their author’s language and his point of view. But if we talk about single images as an artistic research from a photographic standpoint… In this case I think the conceptual goal of the authors lies in that single work, which has no narrative intention. It is created to include in itself everything the artist wants to say and evoke in us. But this is really another story.
In what way is the relationship between photo-editor and photographer characterized? Which processes are established?
Talking about my [own] relationship with photographers, I don’t think a given rule exists.
In my experience, the relationship happens at the table. I try to have lunch or dinner with the photographers as often as I can. When you sit at a dining table there are no computers or prints. You get the chance to mentally build the story that you’re going to see later. I like how they showcase their work. It’s a way to establish a connection, to imagine something in my mind and then let myself be surprised - which happens quite often. There are marvelous descriptions, and not so good images - and lunches where few words are spoken. But you still come home with an interesting photo and ideas to think about.
The photographers I meet up with aren’t usually looking for confirmations about their works. On the contrary, they expect constructive criticism, and they want to be challenged. Most of them need help with editing the narrative sequence or some advice on how and where to present their work. I often come across works in progress that need to take a certain final direction - works for which the photographers need advice on what is still missing or has been investigated too superficially. Hardly no-one comes to me suggesting works for the magazines I work for. Paradoxically, it feels like getting published is not a priority any longer. It must be because the pay is so little or perhaps because of the smaller and smaller consideration they grant the publishing industry.
Anyway, one fact stands true today: getting published in newspapers or magazines constitutes no means of measuring the success of their work.
You’ve recently curated the publication of 4, released by Terra Project with WuMing2. What’s the difference between a magazine’s work and an editorial work such as this one? Could you tell us something about this experience?
The work behind an editorial project for a book and what you do daily for magazines - be them weekly or monthly - is entirely different. In the first case, you plan extensively and times are quite prolonged. With photographers we normally work on long-term projects. We choose the images and build a draft for the sequence. Once this draft is built, the designer starts working on the container. As this process goes on (and it does undergo a number of changes due to the need of adaptations), you work on texts: introduction, afterword, testimonies, subtexts, biographies, etc. Putting all this together calls for a demanding and thrilling teamwork. You see something being born (which didn’t exist before) - and, whatever the outcome, it will forever be in its substantial form and traceability.
It’s like leaving a little mark, telling a small story in the massive story of the world.
When it comes to these projects, I build an empathic relation with photography - it’s obsessive, physical and highly creative.
Working with magazines is different: each issue you prepare ends as it is sent out to the typography. Publications blow over as you send out new pages and start a new issue. What remains is the memory of the things you have produced or published - the good ones and those that turned out badly and that you regret. As fascinating as it may be (and it really is), it’s something that never belongs to you completely. It’s built up with the editorial staff, which is a vast and not always an homogenous group: a magazine is the result of a number of mediations and different skills over which the editor-in-chief has the final and decisive say.
You constantly live by charged-up rhythms, even in the case of finishing a monthly publication: you have to respect deadlines, follow guidelines and make last minute alterations.
The experience of “4” was extremely difficult. Gathering together such different people who had never even met before, with no assignments (hence with no deadlines to respect) was like swimming in the high seas without knowing which direction to take. It didn’t originate as a collective project, and perhaps that’s why it was hard to make it as such.
We created a fantastic story starting from photos of real life from different photographers and works. Basically it was about working on an archive, diving into four years of releases and finding a common denominator, so that the final result would be homogenous.
It was a really big challenge. A triple pike jump. Years of work, countless interruptions, lots of words and huge labor.
What outcomes do you see for multimedia? Do you deem it as a likely “evolution” of photojournalism or rather as a tool that adds up to a well-grounded means? We’re thinking of multimedia works from the New York Times, or Hollow, and the like - however different one from the other.
I’m extremely glad that multimedia has entered photojournalism. On some levels, it represents an evolution. Generally speaking, I’m very optimistic towards online information and the role of photos, both still and moving images. I believe that quality journalism - the kind of in-depth journalism - could and should restart from the new media, because it’s [more] convenient. Photography, videography, graphics, infographics, illustration and words need to be the languages that information has to be able to speak again, if it wants to be interesting (and live online). I cannot but have faith in a rebirth. And I confess I’d like to have the opportunity to contribute to this rebirth and experience the privilege of experimenting. Today it’s unthinkable to create new magazines without a dialogue with the web, that is without a dual project. Yet it does happen, and the result is always the same: magazines that survive a season and are shut down after burning away financial resources and professional contributions.
I believe the real investment in projects should be in the vast webspace. It’s crucial to go back to inventing and then reverting to print magazines, without mocking each other. The web doesn’t constitute an alternative to print, and viceversa. They have different possibilities and goals.
If they’re done properly, they both work. So we get back to the quality issue. You always end up and restart from that point. That’s what is needed, otherwise we’ll never overcome [this agony] and will keep looking at it, counting the victims.
Sometimes we perceive a certain difficulty in asserting a clear identity in reportages today, which seem to be in a constant and continuous tension towards different directions - art, authorship, even self-abnegation at times, and, more generally, towards an often interesting contamination. Which phase are we in?
We are more open-minded and unorthodox, and less rigid. For instance, we can look at conflicts from various points of view.
I’m thinking of the images from contemporary wars: press agencies offer a continuous flow that updates us on the[ir] factual evolution, while the protagonists of the horrors document their lives and produce evidence through smartphones or simple cameras. The commitment of big contemporary maestros who follow a long-term conflict are individual viewpoints, epic visions.
So [there is] a non-stopping flow of [breaking] news, individual evidences, big stories - these are the many languages of photography. None can replace the other.
If we add up the many opportunities the history of photography has given us to deepen the tragedy of war in different places or historical moments, then we’ll get the chance to enjoy a greater number of works at different levels.
Just to give a few examples… while I answer the questions of this long interview, there are a few exhibitions going on that can back up my claim: I’m thinking of Tate’s Conflict, Time, Photography and La guerra che verrà non è la prima
1914 – 2014 at Mart in Rovereto.
As for authorship in contemporary photography, some photographers use other languages when dealing with themes that are dear to photojournalism. And so they give us the chance of another approach to war: Broomberg & Chanarin or Raphaël Dallaporta, only to name a couple. Others, like Gabriele Basilico with Beirut or Simon Norfolk with The battle space, have chosen documentary photography to lead us towards suggestion and reflection; the large scenarios of Luc Delahaye and the chromatic gimmicks of Richard Mosse, have offered original points of view - just like Josef Koudelka with “Chaos”, who offers a new, powerful interpretation of a wounded land.
I realize that the example of war is quite obvious. Yet, if we really think it through, it’s so iconic in photojournalism that it works perfectly to point out the danger of forgetting other possible stimuli we face.
Contamination means richness, and different languages are our best chances to grow: eyes, stomach, heart, mind, skin.
How do you relate to these trends as a photo-editor?
As I said before, today’s magazines are not the right means of expression for contemporary photography. They don’t exploit the rich and variegated offer that is out there.
They are limited to the “illustrative” image, not the documentary one. They’re not interested in authorship, unless filtered by an artistic concept - and even then, it’s only if the image allows some kind of visual entertainment.
As a photo-editor, I confront myself with these issues every day. I try and find a break in order to suggest different things, but I do realize that this is not the time for experimentation, curiosity towards what’s new and (sadly) for what’s old either. Think about it, the use of period photography has disappeared, causing great dismay amongst many followers.
There is an identity crisis that forces you to take as little risk as possible, and to follow well-established stereotypes.
I hope I’ll soon have the chance to face the question of experimentation and contamination of languages - because, as a photography enthusiast, I wonder constantly, I try and follow what happens and I change my mind often. This healthy confusion forces me to ask myself new questions, without letting me have the time to find answers.
How do you work with photographers who have a well-established and well-recognizable style when you’re working on an assigned editorial?
When I assign a job to a photographer it’s because he has a recognizable style, and I’d like for him to convey his “identifiability” in the work I am to produce. Current budgets don’t allow for big collaborations with established photographers - who rightly deserve an appropriate fee. To their advantage, they have institutional assignments to sustain them. A small example: if I assign a job to Luca Campigotto, it’s because I want to publish a city photographed with those particular lights and his specific point of view.
I already know what he will do, and that it will align with the magazine I’m working with at the moment.
Then again, every job offers surprises, an unexpected photo.
It’s the beauty of the job.
We are submerged by images of which we’re both producers and consumers. How important is it to seek a visual identity today, especially in the editorial world?
It depends on whether the question is for photographers or magazines.
It’s an interesting double game.
If you are a photographer, you don’t have to seek a visual identity - it belongs to you already. That’s why you place yourself as an interpreter of reality. You want to document it through your own language, and a distinctive touch of your personal narration.
Identity is not stimulated by the editorial market - and perhaps not by the art market either. It’s a work you do within yourself, more or less consciously. You find the key to interpreting the world [yourself]. Photography is the means.
The result cannot be measured with economic successes or the exhibition of the work.
There are extraordinary authors who have been only acknowledged posthumously. I’m thinking of Vivian Maier, since I’m working on her these days.
The search for a visual identity is essential to a magazine that aims at being original and recognizable, conquer a new audience and loyalize them. That’s why it’s crucial to reason in terms of projects and to change often, question your own direction, monitor the results (not only the marketing or financial ones) and the relationship with the public.
Sometimes we get the impression that photography in Italian magazines and newspapers is still linked to an illustrative role. How do you weigh the editorial industry with regards to the use it makes of images?
It’s not the right time to judge this publishing industry. The industry itself is aware of being at its last stop and of the need to be regenerated. This will happen. Then, we’ll have new opportunities to implement the skills we’ve acquired in these difficult years. When you can’t do what you would like to do and the way you’d like to, you can only dig in and better it - it’s the mole’s job: sooner or later it comes back to the surface.
I’m fervidly convinced that there’s a lot of excellent talent out there: journalists, writers, designers, photographers, illustrators. We are all studying to do our job better.
Thanks to self-publishing (and other means, too), it feels like we’re witnessing a rebirth of the photo-book. There’s an increase in the number of books published, both in conceptual terms and in print. Don’t you think that this originates also from the need to detach from the fruition of slideshows and video-portfolios, and to rediscover a tangible dimension of photography?
I think that this trend towards self-publishing may be a little dangerous and tedious. Crowdfunding is a possibility for anyone to collect what is needed to design and print their visual deliriums. I’m not convinced everything is necessary. There are many books we can live without - books that are completely centered on their authors. And I may add: dear author, if your book sells three copies, you should ask yourself some questions.
The fact that there are no editors as reference persons is insidious: everyone wants to see their work published, without ever asking themselves if it makes sense and whether it’s worth it. And so you can avoid to be judged by third parties. Self-publishing originates from the difficulty of having editors willing to invest and evaluate [your work].
An editor’s role is not to pay for a book, but to understand its value and spread it. This concept has been lost. In the end, you may make a book just to escape the frustrations of the magazine market, the lack of incomes from the web or editors who expect both budget and content.
On the other hand, I think many self-produced books are useful to photographers to reflect on their path, and to compare their work with that of other authors. In this case, it’s not a negative thing - so long as you don’t presume (and expect) that bulks of little images printed on yellowish papers can become interesting products for a wider audience.
Very few works deserve the “tangible dimension of photography” you mention.
I’m all for having fewer books and less dust.
What can you tell us about your future as photo-editor?
The future cannot be told.
It hasn’t happened yet, and I wouldn’t want to spoil it with forecasts.